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Più flessibilità, più libertà per le imprese di licenziare come leva per eliminare la precarietà e creare maggiore occupazione: questi erano gli obiettivi ambiziosi del Jobs Act - la legge 183/2014 - sbandierati all’epoca con grande enfasi da Matteo Renzi. Sono passati dieci anni e i numeri ci dicono che non è andata così. Anzi: è andata proprio al contrario.
“I contratti a termine e part time riguardano stabilmente ormai quasi il 30% degli occupati e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati: la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in Italia. L’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita delle ore lavorate totali, data l’espansione del lavoro part time”. Così scrivono i ricercatori della Fondazione Di Vittorio - l’istituto di ricerca della Cgil - nel rapporto Precarietà e bassi salari. Rapporto sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act presentato oggi (30 aprile) a Roma.
“Il risultato di questa legge - si legge nella ricerca - è stato un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita. Siamo scivolati indietro rispetto alle maggiori economie europee”. Una conferma, insomma, che i referendum dell’8-9 giugno voluti dalla Cgil rappresentano l’occasione per rovesciare politiche sbagliate che hanno prodotto effetti opposti a quelli che si proponevano.
Precarietà e sviluppo “basso”
Vale la pena di ricordare che grazie al Jobs Act è stato introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (niente più reintegro in caso di licenziamento illegittimo per le nuove assunzioni), sono stati liberalizzati i contratti a termine e ampliata la possibilità di lavoro accessorio: ed è proprio sulla precarietà del lavoro che i quesiti di giugno intendono intervenire.
In una situazione di grande stagnazione dell’economia italiana che va avanti dal 2000 (il Pil pro capite italiano è oggi di 31 mila euro, poco più alto a prezzi costanti di quello del 2000 e la produttività per ora lavorata è poco sopra i livelli del 2000 anche per la caduta degli investimenti), “rendere meno costoso e più flessibile l’uso del lavoro, anziché rafforzare le strutture produttive, ha contribuito all’indebolimento e al ristagno dell’economia italiana”, si legge nello studio.
I dati sono eloquenti: tra il 2004 e il 2024, l’occupazione dipendente totale è aumentata del 17% ma a crescere sono stati soprattutto i lavori a termine e part time. I lavoratori a tempo indeterminato e a tempo pieno sono cresciuti solo dell’7,2%, mentre quelli stabili ma part time sono aumentati del 60%. I lavoratori a tempo determinato a tempo pieno sono aumentati del 32%, quelli part time sono raddoppiati con un aumento del 95%. In entrambi i casi, l’incremento si è registrato soprattutto tra 2014 e 2019, cioè dopo il Jobs Act, a dimostrazione che questa legge non ha affatto invertito, ma anzi esacerbato, la dinamica precaria (o “a tempo ridotto”) dell’occupazione in Italia.
Nord e Sud, uomini e donne
La precarizzazione del mercato del lavoro, in aggiunta, non è stata omogenea sul territorio nazionale. Si legge nel report: “La quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato nel 2024 raggiunge il 20% nel Mezzogiorno e il 12% nel Nord Italia. L’aumento è concentrato negli anni successivi al Jobs Act, con una crescita forte soprattutto nel Sud del paese”.
Poca equità anche nella ripartizione per genere. La percentuale di donne che hanno contratti a tempo determinato è stata sempre molto più elevata che per gli uomini; nel 2004 era oltre il 14% rispetto a meno del 10% per gli uomini. Negli anni successivi al Jobs Act si registra una forte crescita e una convergenza: nel 2019 la quota per entrambi è intorno al 17%. Nella ripresa dopo la pandemia, i divari tornano a essere rilevanti, con la quota per le donne in crescita ulteriore, prima del calo registrato negli ultimi anni.
Notevoli anche i dati sul part time: il numero di donne è salito da 1,6 milioni nel 2004 a 2,7 milioni nel 2019, per poi stabilizzarsi intorno ai 2,6 milioni del 2024. Per gli uomini i numeri sono inferiori, ma sono comunque raddoppiati: dai 350 mila del 2004 a oltre 700 mila nel 2024. Da notare che in moltissimi di questi casi non si tratta di una scelta fatta per conciliare vita e lavoro, ma di un’imposizione delle imprese per avere più flessibilità.
I più penalizzati? I giovani
Per i lavoratori giovani (dai 15 ai 34 anni), la percentuale di contratti a tempo determinato è balzata dal 19% del 2004 a oltre il 30% nel 2024, raggiungendo il 37% nel 2018 dopo l’introduzione del Jobs Act. La crescita dei posti di lavoro a tempo indeterminato riguarda soprattutto le persone più anziane, tra i 50 e i 64 anni. In estrema sintesi: “Le prospettive di lavoro stabile per i giovani restano meno favorevoli”. L’effetto è prevedibile: i giovani lasciano sempre più di frequente il Paese. Tra il 2011 e il 2023 hanno fatto questa scelta in 550 mila, con un saldo negativo per quella fascia d’età di 377 mila persone. Il dato più preoccupante è che ormai il 43% dei giovani che lasciano il paese è laureato, una quota che è cresciuta costantemente e che riflette l’impoverimento del sistema produttivo e del mercato del lavoro del Paese.


D’altra parte, anche se sembra un paradosso, dopo il Jobs Act il lavoro precario e il part-time si sono diffusi sempre di più tra i laureati piuttosto che tra le persone diplomate o con la licenzia media: “Fatto 100 il numero di laureati con lavoro a termine nel 2004, nel 2024 si è raggiunto il valore di 227. Per i diplomati la dinamica è più contenuta. Analoga la dinamica del lavoro part time dei laureati”. Sommando le due tipologie, il numero di laureati con lavori precari e part time è aumentato di due volte e mezza in vent’anni.


La caduta dei salari
I dati sono clamorosi e dimostrano ancora una volta che nessuna delle promesse legate al Jobs Act è stata mantenuta: tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti di 9 punti percentuale, mentre in Germania e Francia sono cresciuti del 14 e del 5%. Secondo il rapporto Ocse sull’occupazione, l’Italia è il Paese con la maggiore caduta dei salari reali nell’area.


“La caduta dei salari è legata alla precarizzazione del lavoro, allo spostamento verso servizi a bassa qualificazione e alla mancanza di investimenti: tra il 2010 e il 2019 gli investimenti fissi lordi in Italia sono caduti in termini reali di 8 punti percentuali, mentre sono aumentati del 16% in Francia e del 20% in Germania”, sottolinea la Fondazione Di Vittorio nel suo studio.
Salute e sicurezza: sempre peggio
Il numero totale di infortuni sul lavoro, si legge nel report, “è progressivamente diminuito fino al 2015 quando, in coincidenza con l’introduzione del Jobs Act, si registra una battuta di arresto e gli infortuni restano a un livello costante, e addirittura aumentano dopo la fine della pandemia, per arrivare nel 2023 a 470 mila”.
Il legame tra salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e le condizioni di lavoro precario, magari in subappalto nelle piccole imprese, sono ormai noti. Due infortuni mortali su tre avvengono nelle imprese con meno di 50 addetti. In sostanza, “gli stessi processi che hanno alimentato la precarizzazione del lavoro in Italia – in particolare dopo l’introduzione del Jobs Act – e l’impoverimento del sistema produttivo sono alla radice anche dell’incapacità delle imprese di ridurre – a partire dal 2015 – l’incidenza degli infortuni sul lavoro. Proprio l’insufficiente sicurezza sul lavoro – con mille morti sul lavoro ogni anno – rappresenta il segnale più drammatico del degrado della qualità dell’occupazione in Italia”.
Che fare?
Le leggi hanno un’influenza profonda sullo stato dell’occupazione del Paese e sulla sua qualità. Lo dimostrano quelle norme che, con uno spirito opposto a quello che ha ispirato il Jobs Act, hanno invece avuto effetti benefici sul mercato del lavoro. I ricercatori della Fondazione Di Vittorio citano, a questo proposito, gli incentivi ai contratti a tempo indeterminato del 2014 e il decreto dignità del 2019 che “hanno avuto effetti immediati – ma limitati e temporanei: la precarietà si è ridotta”. Discorso simile, durante la pandemia, per le misure di tutela del lavoro e dei redditi, e per gli investimenti finanziati dal Pnrr. Allo stesso modo, l’introduzione del Reddito di cittadinanza nel 2020 ha consentito di ridurre le condizioni di povertà ed effetti molto positivi avrebbe l’introduzione del salario minimo per tutelare i salari più bassi. In attesa che il legislatore batta un colpo, quello che si può fare è andare a votare - e votare 5 sì - ai referendum dell’8 e 9 giugno promossi dalla Cgil.