Le giornate terribili si assomigliano tutte. Spesso iniziano con lo squillo del telefono e poche parole concitate prima della presa di coscienza che da quel momento niente sarà più lo stesso. È così che Harjit Singh, bracciante indiano del Punjab in Italia dal 2010, apprende della morte del suo fraterno amico Rajinder Singh. Lo trova una mattina riverso nel proprio giaciglio all'interno dell'opificio di proprietà di una società agricola di Torrimpietra, frazione del Comune di Fiumicino. Un manufatto senza cucina né bagno, senza elettricità né acqua potabile dove vengono stoccati attrezzi ed erbicidi.
Il risultato dell'autopsia è una sentenza: ogni centimetro del corpo di Rajinder è avvelenato da diserbanti e fitofarmaci maneggiati per anni senza protezioni. Il suo amico si rivolge a un avvocato e al sindacato. Ma la giustizia si è fermata di fronte alle dichiarazioni dei suoi colleghi che – probabilmente per paura – non hanno confermato davanti al giudice la mansione di Rajinder, vittima del proprio aguzzino e dei mancati controlli dell'Ispettorato del lavoro e delle aziende sanitarie. Una storia per la quale potrebbe non essere stata ancora scritta la parola fine.