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Monsignor Vincenzo Paglia, che nel passato è stato per anni arcivescovo a Terni, è stato scelto dal ministro della Salute, Roberto Speranza, come coordinatore della Commissione nazionale di studio per la riforma del sistema dell'assistenza sociosanitaria degli anziani. Ha pubblicato per Einaudi un libro a quattro mani con Luigi Manconi, Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente. Gli abbiamo chiesto un commento sui risultati del sondaggio realizzato dall’Osservatorio Futura per conto della Cgil . Ecco le sue risposte.
Dal sondaggio risulta che le categorie sociali più colpite dalla pandemia sono state gli anziani, i disabili e in generale le persone che vivono da sole (soprattutto donne). Condivide questo giudizio?
Lo condivido e aggiungo che c’è un’altra “categoria”: i bambini e gli adolescenti, i quali stando in casa, con le scuole chiuse e senza la dimensione della socialità hanno subito danni non lievi. Ma vado in ordine. Un anno fa, nella primavera del 2020, il responsabile dell’Ufficio europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di fronte alla strage di anziani ha parlato di una “tragedia inimmaginabile”. I decessi sono avvenuti in gran parte negli Istituti per anziani. La “famiglia”, a parità di condizioni, li ha protetti di più. In realtà il Covid-19 ha fatto emergere una contraddizione già presente nella società: lo scarto dei più deboli. Per questo va avviata una riflessione profonda su come ripensare l’assistenza ai deboli, in particolare agli anziani, ai disabili e ai bambini. Per quel che riguarda gli anziani dobbiamo essere ormai sicuri che l’istituzionalizzazione non va bene. Abbiamo bisogno di una nuova visione, di un nuovo paradigma che permetta alla società di prendersi cura degli anziani. E lo stesso vale per i minori, soprattutto per i bambini e per le famiglie, come anche per i disabili. Certo, vi è anche il problema delle donne, del lavoro, della riorganizzazione stessa della società. E’ all’interno di una nuova visione della società che si colloca, ad esempio, la questione della natalità. E’ anche un problema economico, ma è anzitutto culturale, ossia di visione del futuro, di gusto di una vita piena di affetti e non solo tesa alla propria autorealizzazione.
Un morbo chiamato isolamento
Al fondo della fragilità di chi ha pagato il prezzo più alto sembra esserci la solitudine e l’isolamento, oltre ovviamente il contagio che si è sviluppato nelle Rsa, le Residenze sanitarie assistite. Ci sono state delle responsabilità sociali? Quali errori sono stati fatti?
La persona deve essere al centro della preoccupazione dell’intera società in tutte le sue articolazioni. La solitudine, più velenosa dello stesso Covid-19, è la conseguenza di una società “narcisista” sino all’esasperazione. Sono convinto che nelle Rsa – ed anche altrove dove si è abbandonati – la solitudine è stata una causa che ha allargato il numero dei decessi. L’istituzionalizzazione degli anziani significa avvicinarli alla morte già da quel momento. In istituto tutto va in discesa verso la morte. Solo una coscienza ispessita ci fa dire ammassare gli anziani in questi luoghi anonimi. Ci dimentichiamo che ogni anziano è diverso dall’altro, e che la singolarità di ogni storia non può essere trascurata: la sua biografia, il suo ambiente di vita, le sue relazioni attuali e passate. Una assistenza degna di questo nome parte dalla centralità della persona anziana e dei suoi bisogni. Questo vuol dire che un nuovo piano di assistenza deve partire dalla permanenza dell’anziano là dove vive da sempre, nella propria abitazione. Dicevo che la pandemia ha portato drammaticamente alla luce una contraddizione già presente nella società: da una parte ci fa vivere più anni – ed è un grande progresso – ma dall’altra è incapace di custodirci. Viviamo trenta anni in più, ma per fare cosa? Per stare relegati in istituti? Non è una bella prospettiva.
La nuova lotta tra poveri
Sempre dal sondaggio emergono spunti apparentemente contraddittori. Da una parte si dice che gli anziani sono un pilastro perché sorreggono le famiglie con le pensioni e la cura dei nipoti. Ma dall’altra parte cresce la percentuale di giovani che si lamenta del fatto che è costretta a versare i contributi per pagare le pensioni di oggi, quando poi - loro - le pensioni non le avranno, svolgendo lavori precari e discontinui. La nuova guerra tra poveri?
Direi proprio di sì: c’è il rischio della guerra tra poveri. In realtà continuano ad emergere le contraddizioni della nostra società: manca un pensiero, una attenta riflessione sull’età anziana e sull’indispensabile, purtroppo ignorata, attenzione al legame tra le generazioni. Date queste premesse è ovvio anche l’assenza di una politica adeguata. Sul welfare familiare da parte degli anziani c’è chi ha calcolato il loro apporto a circa 20 miliardi di euro. Una mezza finanziaria. Lavoro ovviamente non riconosciuto. Dovremmo ripensare seriamente il senso del lavoro. Ora sembra che sia lavoro solo quello remunerato. E i trenta anni di vita in più – anche di possibile lavoro attivo – sono a perdere? C’è bisogno di riflettere più ampiamente. Altrimenti continueremo a pensare al benessere economico di alcuni, lasciando da parte i più giovani. E’ deleterio il clima di “guerra” tra le generazioni. E’ vero che stiamo scaricando i costi del presente sui nostri figli e nipoti. È necessaria una rapida inversione di rotta, altrimenti la società si dissolve. Lo ha detto il premier Mario Draghi parlando agli “Stati generali della natalità” il 14 maggio e lo ha ribadito nello stesso luogo Papa Francesco. Serve una alleanza tra le generazioni, non il conflitto tra chi ha e chi sa che avrà meno o poco.
Una legge di civiltà
Una delle richieste che emerge con forza (anche da questo sondaggio) riguarda la legge sulla non autosufficienza che i sindacati confederali e dei pensionati chiedono da anni. Come si affronta il problema dell’assistenza?
Parlo solo della riforma dell’assistenza agli anziani. E’ indispensabile mettere in atto un nuovo paradigma che, a mio avviso, dovrebbe allargarsi anche alla disabilità. Il focus deve essere prendersi cura degli anziani anzitutto a casa. Gli anziani e i disabili debbono essere curati il più possibile a casa o nel proprio habitat. E la società deve “inventarsi” un piano largo per sostenere questa prospettiva. Ovviamente, man mano che sorgono nuovi bisogni per l’anziano (o il disabile) ci si deve misurare per rispondere in maniera consona e adeguata. La Commissione per la riforma dell’assistenza agli anziani che presiedo prevede le centralità dell’Assistenza Domiciliare Integrata (che comprende aiuti sia sanitari che sociali) e, se necessario, si avviano cohousing, centri diurni, centri di riabilitazione nei paesi di residenza o nei quartieri della città ed infine anche Rsa quando è necessario e non per sempre.
Quella battuta di Camilleri
In alcune sue dichiarazioni lei ha citato Camilleri che vedeva la casa degli anziani come la loro memoria. Come usciamo dalla pandemia da questo punto di vista?
Camilleri, con l’acume umanistico che lo contraddistingueva – affermava che mettere un anziano in istituto significa togliergli la memoria: viene strappato da casa, dai ricordi, dai volti familiari, dal panorama di una vita…e, aggiungo io, dal suono delle campane della chiesa o del comune, dagli odori di casa, dalla libertà di scegliere cosa mangiare, cosa vedere in televisione…e tanto altro ancora. E’ davvero curioso: stiamo attenti a non togliere gli alberi dal loro terreno mentre, senza pensarci più di tanto, sradichiamo i nostri vecchi dalla loro casa. Certo, alcuni dicono che non stanno bene, oppure che le famiglie non ce la fanno…Ed è qui che bisogna intervenire, offrire l’aiuto lì dove sono, anche ovviamente alle loro famiglie. In realtà, il tema vero è l’assenza di amore e di onore per i vecchi. Se mancano l’amore e l’onore, per i vecchi è finita. Le Rsa vanno riformate e inserite in quello che si chiama continuum assistenziale. E ai responsabili dico: assieme alle Rsa bisogna avere anche l’assistenza domiciliare, il cohousing, i centri diurni ad alta qualificazione, capaci di terapie occupazionali e cognitive e processi di inclusione e socialità, formazione ed educazione. È necessario prevenire. Gli anziani non vanno lasciati soli. Sono una risorsa preziosa da valorizzare, non da buttar via.
Le proposte della Commissione
Lei presiede la Commissione nazionale istituita dal governo per la riforma del sistema dell’assistenza agli anziani. Ci può anticipare qualche proposta?
Prima di tutto voglio sottolineare che un nuovo modello di assistenza significa modificare la mentalità: serve una rivoluzione culturale basata sull’idea di integrazione e di un continuum di assistenza. Questo richiede un processo di conversione sociale, civile, culturale e morale. Il piano della Commissione prevede, per fare un esempio, l’Adi per 500.000 anziani non autosufficienti e la presa in carico dei 4.000.000 di ultraottantenni oggi in Italia, attraverso una rete di vicinanza e di assistenza che vinca solitudine e abbandono. Ovviamente questo comporta l’incremento delle figure dei care-giver, professioni già da anni presenti nelle società occidentali. Ci sono poi altre professionalità che vanno inquadrate all’interno di cornici normative, tali da valorizzare i talenti e sostenere le famiglie. Tutto ciò può consentire agli anziani di vivere in maniera “familiare” la loro esistenza. Grande supporto può derivare dalle nuove tecnologie e dai progressi della telemedicina e dell’intelligenza artificiale: se ben utilizzati e distribuiti, possono creare, attorno all’abitazione dell’anziano, un sistema integrato di assistenza e cura capace di rendere possibile la permanenza nella propria casa o in quella dei propri familiari. È necessaria una personalizzazione dell’intervento sociosanitario e assistenziale. In tale orizzonte vanno promosse con creatività e intelligenza l’independent living, l’assisted living, il co-housing e tutte quelle esperienze che si ispirano al concetto-valore dell’assistenza reciproca, pur consentendo alla persona di mantenere una propria vita autonoma. Tali esperienze, infatti, consentono di vivere in un alloggio privato, godendo dei vantaggi della vita comunitaria, in un edificio attrezzato, con un sistema di gestione del quotidiano totalmente condiviso e alcuni servizi garantiti, come l’infermiere di quartiere. Ispirandosi al tradizionale vicinato, contrastano molti dei disagi delle città moderne: la solitudine, i problemi economici, la carenza di legami affettivi, il semplice bisogno di aiuto. Sono le ragioni fondamentali del loro successo e della loro larga diffusione in tutto il mondo. Sono formule abitative ed assistenziali che richiedono un profondo cambiamento di mentalità e di approccio all’idea della persona anziana fragile, ma ancora capace di dare e di condividere: un’alleanza tra generazioni che può farsi forza nel tempo della debolezza.