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C’è un fiore che non si arrende mai, che cerca sempre la luce e si piega solo per seguirla: il girasole. È simbolo di forza, di speranza, di giustizia. Se la legalità fosse un campo di girasoli, dovrebbe essere capace di orientarsi sempre verso la luce della giustizia, senza piegarsi all’ombra della corruzione e della criminalità organizzata. Eppure, oggi quei campi sembrano diradarsi. Si parla sempre meno di mafia, quasi fosse un problema del passato, qualcosa di risolto. Ma non è così. Se smettiamo di farci domande, di approfondire, di raccontare, rischiamo di spegnere la luce della consapevolezza.
Negli anni ’90, l’Italia viveva una stagione in cui la lotta alla mafia era una priorità nazionale. Il nome di Falcone e Borsellino non era solo quello di due magistrati, ma il simbolo di un Paese che cercava un riscatto. Le stragi di Capaci e via D’Amelio avevano scosso le coscienze, mobilitato i cittadini, portato in piazza migliaia di persone, unite dalla convinzione che la mafia si potesse sconfiggere davvero. Quel periodo ha segnato un punto di svolta: si parlava di legalità nelle scuole, nei giornali, nei programmi televisivi. La lotta alla criminalità organizzata non era solo compito delle istituzioni, ma una battaglia collettiva.
E oggi? Oggi sembra che quella spinta si sia affievolita. La mafia non spara più come negli anni delle stragi, ma ha affinato le sue strategie. È meno visibile, più subdola, si infiltra nel tessuto economico e sociale senza clamore, ma con la stessa pericolosità. È presente negli appalti pubblici, nella gestione dei rifiuti, nel caporalato, nel riciclaggio di denaro. Non ha bisogno di minacciare apertamente, perché trova terreno fertile in un sistema che spesso chiude un occhio, in una società che si abitua a conviverci.
Eppure, è proprio nel silenzio che la mafia prospera. Quando non se ne parla, quando non si denuncia, quando si accetta come un problema lontano, l’ombra si allarga e soffoca la giustizia. La legalità, invece, dovrebbe essere un impegno quotidiano. Un’abitudine, un atteggiamento, una scelta. Come i girasoli, dovremmo imparare a cercare sempre la luce, a non distogliere lo sguardo di fronte alle ingiustizie, a non accettare compromessi morali.
Riaccendere il dibattito sulle mafie non è solo una necessità, ma una responsabilità. Bisogna parlarne nelle scuole, nei media, nei luoghi di lavoro, nelle discussioni politiche e sociali. Perché la memoria non può essere solo un rito commemorativo: deve trasformarsi in azione. Ricordare tutti coloro che hanno sacrificato la vita per un’Italia più giusta non significa solo onorarne il coraggio, ma portarne avanti l’eredità, con gesti concreti e quotidiani.
E la lotta alle mafie non è solo denuncia, è anche costruzione, emulazione. Esistono esperienze di resistenza e legalità che spesso non fanno notizia, ma che meritano di essere raccontate. Spesso relegate nei territori più remoti. Dalle cooperative nate sui beni confiscati alle reti di economia etica, c’è chi ogni giorno dimostra che un’alternativa è possibile. Ed è su queste esperienze che dobbiamo accendere i riflettori, perché mostrano che la legalità non è solo un dovere, ma una possibilità concreta di cambiamento.
La rubrica che nasce oggi su Collettiva vuole fare proprio questo: raccontare i “Girasoli” che scelgono la luce della giustizia, anche quando il vento soffia contro. Perché la legalità non è un concetto astratto, ma una scelta quotidiana. E sta a noi farla crescere.