“Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti. Ho tutto dato io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa, la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che sono partita per un lungo viaggio ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per vendicarmi. A mio marito dirai che l’ho amato, e perciò muoio perché volevo un libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per cui hai tanto combattuto e sofferto. Ma tu, o compagno, vai al mio paesello e ai miei contadini, ai compagni, dì che tornerò al villaggio nel giorno in cui suoneranno le campane a stormo in tutta la vallata”.

Questo il messaggio testamento che Giuditta Levato affidò prima di spirare a Pasquale Poerio, dirigente comunista e sindacalista, che era corso al suo fianco nel letto d’ospedale.

Aveva 31 anni quando fu uccisa da un colpo di fucile dello sgherro del latifondista, che non voleva cedere le terre incolte state assegnate alla Cooperativa di cui faceva parte. Giuditta Levato era una contadina calabrese, conosceva la fatica ma anche il valore del lavoro; per quel lavoro fatto di dignità e non di sfruttamento morì.

Era alla guida di un gruppo di donne che erano andate a manifestare per riprendersi la terra a loro assegnata: l’avevano arata ma Pietro Mazza, questo il nome del proprietario terriero, ci portò a pascolare i suoi buoi così da distruggere la semina appena fatta.

Un colpo di fucile, dicevamo, sparato da Vincenzo Napoli, braccio destro di Mazza, colpì Giuditta al ventre: lei madre di due bimbi e incinta di sette mesi del terzo, che con la sola “arma” del suo corpo, insieme ad altre donne, voleva contrastare chi pretendeva di affermare il proprio potere sfruttando donne e uomini che volevano essere liberi.

Giuditta Levato aveva anche capito che da soli si è deboli, insieme si può. Nell’immediato secondo dopoguerra si iscrisse al Partito comunista e contribuì a fondare la prima sezione del Pci a Calabricata, il suo paese, lì partecipò alla nascita della prima cooperativa di contadini “Unione e Libertà”, parole che racchiudono fino in fondo lo spirito di questa donna. Unione perché solo insieme ad altri e altre si può; libertà, quella che viene dal lavoro dignitoso e non sfruttato.

“Non stiamo parlando di un'eroina, di una rivoluzionaria o di una capo-popolo ma semplicemente di una contadina: una donna semplice e forte che si batteva ogni giorno per mantenere la famiglia”. Così l’ha ricordata in occasione del centesimo anniversario della sua nascita Giuseppe Valentino, segretario generale della Filcams Calabria: “Indaffarata negli affanni quotidiani, costretta a fare i conti con i soprusi e le privazioni del suo tempo. Una donna moderna, dunque, non molto distante dalle nostre attuali condizioni di vita. La sua grandezza sta nel fatto che ha scelto di rappresentare non solo il proprio bisogno ma di occuparsi degli altri, condividere idee, progetti, sogni e passioni assieme ai suoi compagni”.

Giuditta Levato, una vittima incolpevole delle mafie, una giusta del lavoro che ogni 21 marzo viene ricordata insieme agli altri lavoratori e alle altre lavoratrici, che solo per fare il proprio lavoro con dignità e onore, o per il solo fatto di rivendicare per sé e per altri il diritto a un lavoro dignitoso, sono stati uccisi e uccise.

Ricordare lei, per non dimenticare nessuno di quanti si sono battuti per la dignità e la libertà di tutti.