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Dopo aver “incassato” l’importante, recente decisione (sentenza n. 59 pubblicata il 1 aprile 2021) con cui la Corte Costituzionale ha stabilito che se il giudice accerta la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, ordina (e non semplicemente “può ordinare”) la reintegrazione, lo stesso Tribunale di Ravenna, nella medesima causa, “torna alla carica” concentrando il proprio ragionamento sulla qualifica di “manifesta”.
Con un'estesa e articolata ordinanza pubblicata il 6 maggio 2021 il giudice ravennate critica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori così come riformulato dalla legge Fornero nel 2012, nella parte in cui, ai fini della reintegrazione, non considera sufficiente nel licenziamento economico la prova che il fatto organizzativo indicato dal datore non ci sia, ma esige qualcosa di più.
La formula “manifesta insussistenza” viene interpretata dalla Corte di cassazione come “una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti legittimanti il recesso, che ne consenta di apprezzare la chiara pretestuosità”. La non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo, anche se emersa in giudizio, deve essere “contraddistinta da tratti che ne segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei presupposti del licenziamento”.
Il Tribunale ritiene in violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza la richiesta di tale ulteriore requisito – così come interpretato dalla giurisprudenza – nel confronto con la disciplina prevista per il licenziamento disciplinare (trattandosi di situazioni del tutto omogenee ai fini della tutela) e per i licenziamenti collettivi in caso di violazione dei criteri di scelta. Ciò a fronte di una comune ipotesi di estinzione del rapporto di lavoro per volontà datoriale, uno stesso vizio (insussistenza di giustificato motivo) e una stessa tipologia astratta di violazione (i criteri di scelta, previsti dalla legge solo per i licenziamenti collettivi, sono da rispettare anche nei licenziamenti individuali, in applicazione delle regole di correttezza e buona fede previste dal codice civile).
Sotto il profilo dell’onere della prova (che la legge sui licenziamenti individuali pone giustamente in capo al datore di lavoro), il giudice remittente evidenzia che in ipotesi di prova già raggiunta circa l’inesistenza del fatto da provare (infondatezza “semplice”) viene introdotta un’inversione di tale onere in capo al lavoratore: ciò rappresenta un nonsenso e, dunque, integra una disciplina intrinsecamente irragionevole.
A ciò si aggiunga che non viene fornito all’interprete alcun criterio applicativo logico - ma solo uno “pseudo probatorio” - delle tutele spettanti di fronte all’inadempimento da parte datoriale, per accertare con il metro della facile verificabilità situazioni spesso caratterizzate da difficili e complesse verifiche.
Il Tribunale di Ravenna prende in esame la “mediazione” contenuta nella disposizione dell’art. 18 tra i valori e gli interessi (lavoro e impresa) evidenziando un irragionevole sbilanciamento a sfavore del lavoratore. Il datore di lavoro ha esercitato “la libertà” di iniziativa economica privata, in quanto ha ideato e realizzato la modifica organizzativa, l’ha messa in atto, ha scelto il lavoratore da licenziare, ha tentato il ripescaggio: perché mai - si domanda il giudice - non potrebbe provare compiutamente le proprie ragioni, se sussistenti, ma dovrebbe essere esentato (per quel particolare effetto di legge) da tale onere?
Da ultimo l’ordinanza osserva come la norma censurata si ponga anche in contrasto con il diritto costituzionalmente tutelato di agire in giudizio a tutela dei propri diritti (art. 24 Cost.): una norma sostanziale, infatti – osserva il giudice – non può dipendere dal grado di “semplicità” di una causa, per cui se un accertamento è facile l’ordinamento appronta una determinata tutele, mentre se l’accertamento è difficile viene erogata una tutela diversa e inferiore.
Per queste ed altre più approfondite argomentazioni non agevolmente riassumibili in poche righe – e alle quali quindi si fa rinvio – il Tribunale di Ravenna coinvolge nuovamente la Corte costituzionale al fine di ottenere l’eliminazione della particella “manifesta” contenuta nel settimo comma dell’art. 18, consentendo così sempre la tutela reintegratoria in ipotesi di insussistenza del fatto nel licenziamento per giustificato motivo economico.