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Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino, Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848. Recitava l’articolo 24 dello Statuto: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”.
Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito. Nel 1877 Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata. Nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali. Nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo “Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici”.
La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875.
Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune commissioni elettorali provinciali accolgono. La Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata.
Così la Corte di appello di Firenze giustificherà il respingimento della richiesta: “Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.
Anche Argentina Altobelli prenderà posizione su La Squilla a favore del voto alle donne, da conquistarsi “non per le viottole contorte delle distinzioni e dei privilegi, ma per la gran via maestra del suffragio universale concesso a tutti, senza tener conto del sesso, delle condizioni, e anche agli analfabeti” (nel 1904 era stato costituito il Consiglio delle donne italiane, aderente all’International Council of Women. Il Consiglio organizzerà a Roma, in Campidoglio, nel 1908 il primo Congresso delle donne italiane, inaugurato dalla regina Elena. L’obiettivo era quello di estendere il diritto di voto delle donne della classi più elevate).
Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proporranno un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di un’apposita commissione, sarà accantonata.
Dopo la triste parentesi fascista, le prime elezioni politiche in Italia si svolgono nel giugno del 1946, quando la popolazione tutta viene chiamata a votare per il referendum istituzionale monarchia-repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente. In realtà già qualche mese prima alcune donne erano andate alle urne per le amministrative comunali. In quell’occasione saranno elette le prime donne sindaco della nostra storia.
Il 1° febbraio 1945 era stato infatti emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 che conferiva il diritto di voto alle italiane che avessero almeno 21 anni. Le uniche a essere escluse dal diritto di voto attivo saranno le donne citate nell’articolo 354 del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza cioè “le prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case dove è loro concesso esercitare la professione”.
Il decreto del 1° febbraio, detto anche decreto Bonomi, non contemplava però la possibilità per le donne di essere elette, ma solo di votare. L’eleggibilità, sopra i 25 anni di età, arriverà solo con il decreto n. 74 del marzo 1946, giusto in tempo per le amministrative.
Un diritto, dirà Marisa Rodano, “che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ‘45, ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.
Le donne conquistano quindi – stiamo bene attenti a non parlare di concessione! – il diritto di voto e il diritto di partecipare alla vita politica del nostro Paese, ma la strada sarà, come spesso accade ed è accaduto, in salita.
Se si analizza l’andamento della presenza femminile in Parlamento si può notare come siano stati necessari 30 anni per eleggere più di 50 donne (quota 100 è stata superata solo nel 1987, quota 150 nel 2006. Dal 2006 la crescita della componente femminile risulta più rapida, tanto è vero che nel 2013 il numero delle donne risulterà raddoppiato: 299, pari al 30,7%).
Nei primi trent’anni di vita della Repubblica italiana i Consigli dei ministri sono composti esclusivamente da uomini: bisogna attendere il 1976 perché una donna, Tina Anselmi, sia nominata ministra del Lavoro e della Previdenza sociale dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Solo dal 1983, col governo Fanfani V, la presenza di ministre diventa costante. Nel 1988, per la prima volta nella storia della non più giovanissima Repubblica, il presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, nomina due ministre: Rosa Russo Iervolino agli Affari sociali e Vincenza Bono Parrino ai Beni culturali. E a partire da questa data la media delle donne ministro tende pian piano a salire e raggiunge il 10,7% nel governo Ciampi del 1993, mentre nei successivi governi Berlusconi I e Dini la quota scenderà nuovamente attorno al 5).
Una crescita importante si avrà con Massimo D’Alema nel 1998: “quote rosa” al 22% e una donna, Rosa Russo Iervolino, ministra dell’Interno. La media tenderà a scendere nuovamente con i governi Amato e Berlusconi per risalire notevolmente (circa un quarto del totale) con Romano Prodi, fino a raggiungere con il governo Renzi la piena – anche se temporanea – parità (delle 8 ministre presenti all’avvio del governo, tre presenteranno le dimissioni e saranno sostituite da uomini).
Nell’esecutivo Gentiloni la percentuale di donne al governo scende al 28,33%, al 17,19% nel Conte I, per salire al 34,28 nel Conte II. Otto su un totale di 23, le ministre del governo Draghi. Solo 6 su una squadra di 24 membri per il governo Meloni, il primo a essere guidato da “un” – l’ossimoro non è mio – presidente donna.
Era dal 2008 che la percentuale non si assottigliava tanto (quell’anno Monti aveva schierate accanto a sé soltanto 3 donne su 18 ministri). Uno dei tanti passi indietro compiti da quella che sembra tanto essere una leadership femminile ma poco femminista.