PHOTO
Il 21 gennaio del 1921 nasce a Livorno il Partito Comunista d’Italia. Scriveva Antonio Gramsci su L’Ordine nuovo il 13 gennaio precedente: “Il Congresso di Livorno è destinato a diventare uno degli avvenimenti storici più importanti della vita italiana contemporanea”.
Non aveva torto. A Livorno nasce il Partito comunista italiano, una comunità, oltre che un partito politico. Un “Paese nel Paese”, nella definizione di Pier Paolo Pasolini. “Un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico”.
“Del Pci mi mancano i cartelloni che attaccavamo in sezione il giorno delle elezioni (…) – scriveva nel novembre del 2020 Diego Bianchi –. Del Pci mi manca la necessità di dover sottolineare la parola ‘italiano’ utile a specificare di quale Partito Comunista si stesse parlando. Lo facevamo per distinguerci dagli altri partiti comunisti nel mondo, considerati a fatica e col tempo sempre meno democratici e virtuosi del nostro. (…)”
"Del Pci mi mancano Botteghe Oscure e la sicurezza di avere un posto dove andare, il giorno in cui si sarebbero vinte le elezioni, a festeggiare un mondo migliore, con le bandiere con la falce e martello, cantando Bandiera Rossa, ascoltando il segretario nazionale che usciva dal balcone solo a risultato conseguito. Purtroppo è capitato pochissime volte. Del Pci mi manca Enrico Berlinguer. Quando è morto avevo 14 anni, e ho pianto tanto. Del Pci mi manca l’esempio, e la certezza di essere dalla parte giusta”.
“Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana – cantava Giorgio Gaber –. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno. Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di sé stesso: era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita”.
“Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. (…) Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona (…) Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. (…) Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera eccetera eccetera”.
“La storia di un partito politico - scriveva Pajetta - se questo partito è vivo e se ha messo radici nella realtà del Paese, non è soltanto la vicenda di un gruppo dirigente. La sua storia è la storia del Paese stesso”.
“Abbiamo imparato - affermava Ingrao - anche dagli altri, abbiamo capito, abbiamo corretto? Certo. E molto. Evviva: siamo stati un corpo vivente”. Un corpo vivente che però a un certo punto smette di esistere.
A Rimini, tra il 31 gennaio e il 4 febbraio 1991, in occasione del suo XX Congresso, il Partito comunista italiano viene ufficialmente sciolto. Il Congresso di Rimini è l’atto conclusivo di un dibattito aspro e intenso che prende il via il 12 novembre del 1989, quando alla Bolognina, quartiere popolare di Bologna, l’allora segretario Achille Occhetto, annunciava il cambio di denominazione del Partito.
Alla Bolognina Achille Occhetto parla solo sette minuti.
È il 12 novembre 1989, il muro di Berlino è caduto pochi giorni prima e quello che per il Partito comunista doveva essere un semplice discorso di circostanza per le celebrazioni del quarantacinquesimo anniversario di una battaglia della Resistenza, sarà invece un momento storico che segnerà il passaggio dal Pci al Pds.
Il XIX e penultimo Congresso del Pci si teneva a Bologna dal 7 all’11 marzo 1990. Tre le mozioni discusse: quella redatta dal segretario Achille Occhetto che propone di aprire una fase costituente per un partito nuovo, progressista e riformatore nel solco dell’Internazionale Socialista; una seconda, firmata da Alessandro Natta e Pietro Ingrao, che si opporrà ad una modifica del nome, del simbolo e della tradizione; una terza proposta da Armando Cossutta, che riprenderà pur con qualche differenza i temi ed i concetti della precedente.
La mozione di Occhetto – riconfermato segretario – risulta vincente con il 67% delle preferenze, contro il 30% raccolto dalla mozione di Natta e Ingrao e il 3% di quella cossuttiana. L’anno dopo, all’ultimo Congresso – straordinario – del partito, l’ultimo segretario del Pci, con un discorso di 17 minuti, chiuderà l’ultimo capitolo della storia del più grande partito comunista dell’Europa occidentale.
Nonostante le opposizioni di peso, con 807 voti favorevoli, 75 contrari e 49 astenuti, nel febbraio del 1991 il Pci decreta – al termine di un percorso avviato nel Comitato centrale del 20 novembre 1989 – il proprio scioglimento .
“L’emozione rispetto alla sorte del nome 'comunista' – scriveva quella sera Pietro Ingrao – non è un lamento di 'reduci'. È un grumo di 'vissuto', di esperienza sofferta di milioni d'italiani che intorno a questo nome hanno combattuto non solo battaglie di libertà – che sono state condotte anche da altri che io rispetto – ma hanno visto la tutela dei più deboli, come patrimonio sepolto da valorizzare”.
“Io non mi vergogno di questo nome - dirà Pajetta - né della nostra storia, e non lo cambio per quello che hanno fatto quelli là. Se cambiamo nome, cosa facciamo, il terzo partito socialista? Io dico soltanto che quando Longo mi mandò da Parri per costituire il comando del Cln, né Parri, né altri mi chiesero di cambiare nome, ma soltanto di combattere insieme”.
“In questa annata di memoria del centenario del Pci, defunto già trent’anni fa - scriveva Luciana Castellina nel 2021- mi è capitato di rileggere molte cose e pensarne altrettante. E ho trovato che la definizione più esatta del partito nello scorcio postbellico – ovvero nei decenni migliori e più significativi – è quella che diede Jean-Paul Sartre, curioso e attento conoscitore del nostro Paese. Sartre si pronunciò così: 'Finalmente ho capito cosa è il Pci: è l’Italia' (…) Io sono abbastanza vecchia per aver vissuto quegli anni di costruzione del Pci come un grande partito (aveva quasi due milioni di iscritti); un partito che non aveva leader affabulatori ma difficili intellettuali: da Palmiro Togliatti, che sembrava un professore, a Enrico Berlinguer che, come sentii dire da una donna desolata accanto a me al suo funerale 'parlava così male che si vedeva che era sincero!'. Il contrario del populismo, insomma”.
"Vedere crescere i nuovi quadri nelle sezioni, dove l’alfabetizzazione si faceva a partire dalla lettura di un giornale difficile come l’Unità, e vederli diventare protagonisti nel loro territorio, insieme a me che sapevo leggere ma non sapevo niente del mondo reale: è qualcosa per cui sarò sempre grata al Pci, nonostante i suoi tanti errori successivi (…). Si può ripetere quell’esperienza? Certamente no. (…) E però, santiddio, non potremmo guardarci allo specchio e assumerci le colpe anche nostre nell’aver, alla fine, accettato una modalità della politica che ha svuotato la democrazia, fatta oggi di proteste di strada e battibecchi parlamentari? ”.
In una delle ultime interviste televisive rilasciate a Enzo Biagi che le chiedeva che cosa si augurasse per il futuro Nilde Iotti rispondeva: “Io credo che sarebbe un fatto estremamente importante se il giorno che avessimo portato il nostro Paese fuori dal guado potessimo dire che, dall’inizio alla fine della nostra battaglia, comunque ci siamo chiamati e qualunque forma abbiamo dato alla nostra attività politica, noi abbiamo servito per difendere i lavoratori, per garantire la libertà degli individui e la democrazia del nostro Paese”.
Difendere i lavoratori, garantire la libertà degli individui e la democrazia del nostro Paese. Un compito importante e necessario, mai come oggi. Per dirla con Pasolini,
Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.