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Il 13 luglio 2015 moriva ad Andria Paola Clemente, bracciante impiegata nella acinellatura dell’uva, morta di sfruttamento e di necessità nella patria di Giuseppe Di Vittorio, a pochi chilometri dalle discoteche e dalle masserie a cinque stelle della Puglia alla moda.
“Era un lunedì - raccontava qualche giorno dopo l’allora segretario regionale Flai Cgil Giuseppe Deleonardis - e Paola era uscita di casa sulle sue gambe, come tutte le notti, per andare al lavoro. È tornata in una cassa da morto. È stata sepolta il giorno dopo. L’hanno sepolta senza autopsia e con il nulla osta del magistrato di turno. Il pm non si è recato sul posto perché - riferisce la polizia di Andria - il parere del medico legale è che si sia trattato di una morte naturale, forse un malore per il caldo eccessivo”.
Ma Paola non è morta per un malore. Paola è morta di lavoro, è morta di fatica. “Paola - denuncerà il sindacato - è morta nell’assordante silenzio delle campagne pugliesi. Lo stesso silenzio, spesso vicino all’omertà, che circonda le oltre 40 mila donne italiane vittime del caporalato pugliese, spesso camuffato da agenzie di viaggi o da lavoro interinale. Donne trasportate con gli autobus su e giù per tutta la regione, dalla provincia di Taranto alle campagne del nord della Puglia”.
“Andava via di casa alle 2 di notte”, raccontava pochi giorni dopo la sua morte il marito Stefano Arcuri: “Prendeva l’autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno. Poco. Ma per noi quei soldi erano importanti, erano soldi sicuri, assolutamente indispensabili”.
E aggiunge: “Nessuno potrà ridare vita a chi la vita l’ha persa per eccessivo lavoro, per eccessivo caldo, per inalazioni di sostanze chimiche nocive, per sfinimento, per mancanza di soccorso. Nessuno potrà ripagare tanto dolore. Ma se a vincere, alla fine, sono i diritti e la legalità, non si sconfigge solo lo sfruttamento, ma si dimostra ai nostri figli che un mondo diverso è possibile”.
Da quel 13 luglio 2015, in effetti, qualcosa è cambiato. Il tragico destino di Paola Clemente ha accelerato l’approvazione della legge 199 del 2016, la legge contro il caporalato, la “legge di Paola”, come in molti l’hanno ribattezzata. Eppure oggi, otto anni dopo, Paola rischia di non avere una giustizia.
Un processo è già finito con un'assoluzione, un altro rischia di finire in prescrizione. A pronunciarsi, nell’aprile scorso, è stato il tribunale di Trani, che ha scagionato Luigi Terrone - amministratore unico della società per cui Paola Clemente lavorava - dalle responsabilità nel decesso della lavoratrice, respingendo la richiesta del pubblico ministero di una condanna a quattro anni di reclusione. “Il fatto non sussiste”.
Eppure Paola è morta. Era una donna, era una madre, era italiana. Eppure è morta. Di lavoro. Di fatica. Di necessità. Di bisogno. È morta. E il mercato umano, nonostante tutto, prosegue. Le leggi sono più severe, i controlli ci sono. Ma anche i caporali sono sempre lì.