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Il 9 maggio del 1978, mentre l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, a Cinisi, un piccolo paesino della Sicilia affacciato sul mare a trenta chilometri da Palermo, muore dilaniato da una violenta esplosione Giuseppe Impastato.
Nato il 5 gennaio del 1948 da una famiglia mafiosa, durante gli anni del liceo Giuseppe - per tutti Peppino - aderisce al Psiup e fonda il giornalino L’idea socialista (su questa pubblicazione racconterà, tra l’altro, la marcia della protesta e della pace voluta da Danilo Dolci nel 1967).
Il giornale viene sequestrato dopo pochi numeri e Peppino, lasciato il Psiup, inizia a collaborare con i gruppi comunisti locali, occupandosi in particolare delle battaglie dei disoccupati, degli edili, dei contadini che si vedono privati dei loro terreni per favorire la realizzazione della terza pista dell’aeroporto di Palermo proprio a Cinisi.
Negli Appunti per un’autobiografia, testo di 10 pagine numerate in cui Peppino ricostruisce le tappe fondamentali della sua vita e della sua militanza, racconta lui stesso:
“Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività”.
Dopo aver dato vita al circolo “Musica e cultura”, con il boom delle radio libere Peppino decide di fondarne una propria a Cinisi: Radio Aut. Nel programma Onda Pazza prende in giro i capimafia e i politici locali: il suo bersaglio preferito è don Tano Badalamenti (soprannominato Tano Seduto), erede del boss Cesare Manzella e amico di suo padre Luigi. È una firma sulla propria condanna a morte. Peppino lo sa, ma non indietreggia.
Nel 1978 decide di candidarsi alle elezioni comunali del suo paese nella lista di Democrazia proletaria. Assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio a soli 30 anni, risulterà comunque eletto il 14 maggio con 260 voti.
Anche la madre, Felicia Bartolotta, si reca a votare, violando il lutto che la vuole reclusa in casa. Nel pomeriggio dell’11 maggio, a Cinisi, il comizio di chiusura della campagna elettorale che doveva fare Peppino assieme a un dirigente nazionale di Democrazia proletaria, su invito dei compagni viene fatto da Umberto Santino, fondatore del Centro siciliano di documentazione di Palermo - nato nel 1977 e che nel 1980 si sarebbe intitolato a Impastato - che indica nei mafiosi di Cinisi, e in particolare in Badalamenti, i responsabili del delitto.
Se stampa, forze dell’ordine e magistratura considerano la morte di Peppino conseguenza di un atto terroristico suicida (recita il fonogramma del procuratore capo Gaetano Martorana, poche ore dopo la scoperta dei resti: “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. (…) Verso le ore 0.30 - 1 del 9 maggio 1978, persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale IMPASTATO Giuseppe (…) si recava a bordo della propria autovettura FIAT 850 all’altezza del km. 30 + 180 della strada ferrata Trapani - Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”) comincia a delinearsi un’altra storia e la matrice mafiosa del delitto viene individuata anche grazie all’attività del fratello di Peppino, Giovanni, e della madre (prima donna in Italia a costituirsi parte civile in un processo di mafia), che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e rendono possibile, in virtù della documentazione raccolta e delle denunce presentate, la riapertura dell’inchiesta giudiziaria.
Le indagini si concluderanno solo nel 2002, con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti. “È il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore”, diceva il 24 maggio di quell’anno festeggiando i suoi ottantasei anni mamma Felicia, una piccola grande donna, che - come suo figlio - seppe gridare nella piazza e lottare contro tutti: mafiosi, fascisti, uomini di poco onore. “Padri senza figli, lupi senza pietà”. Felicia morì, finalmente serena per aver ottenuto giustizia, il 7 dicembre del 2004.
“Solo 35 passi separano la cappella degli Impastato dove sono sepolti Peppino e da ieri anche la madre Felicia, da quella di Don Tano Badalamenti la cui foto è in mezzo a quella di altri parenti defunti - si leggeva su Repubblica il giorno seguente -. Anche nella morte dunque, così come nella vita, quelle due famiglie - quella dell’antimafia rappresentata da Peppino, dalla madre e da suo fratello Giovanni e quella della mafia, rappresentata dal defunto padrino di Cinisi morto mesi fa in un carcere degli Stati Uniti - sono a pochi passi di distanza. E la bara di Felicia ieri è dovuta passare davanti alla cappella di don Tano: il boss verso cui lei, moglie di mafioso, in vita non aveva mai avuto ‘rispetto’ e che anzi non aveva esitato a denunciare quale assassino del figlio Peppino. Fino all’ultimo, fino a quando ha in qualche modo ottenuto giustizia. Una giustizia lenta che però a Felicia è servita in tutti questi anni a tentare di svegliare dal torpore i suoi compaesani”.
“Cara Felicia - le scriveva Umberto Santino - oggi ti darò (ci daremo) del tu, per la prima volta. Ci siamo intravisti ventisei anni fa, quando su queste strade pesava una nuvola densa di morte. Era il 10 maggio 1978, giorno dei funerali di Peppino. Eravamo in centinaia, forse mille, venivamo in gran parte da fuori (di Cinisi, come del resto dopo e anche oggi, non erano in molti). Tu eri dietro la bara, con il tuo vestito nero, silenziosa, chiusa nel tuo lutto. Una donna siciliana, si sarebbe detto: la solita donna siciliana, la mater dolorosa, una figura arcaica, uno stereotipo. All’improvviso, come a rispondere agli slogans dei compagni (‘Peppino è vivo e lotta insieme a noi’), si levò, alto, deciso, il pugno chiuso di Giovanni. Era una prima risposta. Un filo cominciava a intrecciarsi. Dentro la famiglia Impastato qualcuno dichiarava pubblicamente di prendere il testimone, si schierava apertamente con Peppino e con i suoi compagni”.
“(…) ‘I morti uccidono i vivi’, leggiamo nelle Coefore di Eschilo, delitto chiama delitto, sangue chiama sangue - proseguiva Umberto Santino -. Gli Impastato violavano la legge del taglione, barbarica e mafiosa, non avviavano una faida o una guerra di mafia contro Badalamenti, ma si schieravano con i compagni di Peppino, con noi del Centro siciliano di documentazione, difendevano la memoria di Peppino, infangata dalla menzogna, iniziavano una battaglia che doveva essere lunga e riservare innumerevoli amarezze. Era una rivoluzione, una rivoluzione possibile ma dura e difficile (…) Ti eri data un appuntamento: il processo a Badalamenti, la scena l’aula bunker e tu che già ti muovevi stentatamente, sorretta dall’avvocato, seduta su una seggiola, con l’indice puntato contro il boss dietro un teleschermo”.
“‘Sei tu l’assassino di mio figlio’”, hai gridato e tu, con tutta la tua fragilità, eri un’accusatrice dissacrante e implacabile – scriveva ancora Santino -; lui, il boss dei due mondi, il capomafia irriducibile e tutto d’un pezzo, un povero vecchio, uno straccio d’uomo che non resisteva al peso della tua accusa. Il giorno tanto atteso era arrivato, ma tu ormai non eri solo una madre alla ricerca di giustizia per il figlio assassinato. Eri già da tempo un punto di riferimento per chiunque lottasse contro la mafia. La tua casa era già diventata un altare civile, un santuario laico, con tutte le carte delle attività di tanti anni appese alle pareti come gli ex voto”.
“(…) Qui – concludeva Sannino – si sono incontrate Felicia Bartolotta e Pina Grassi, Rita Borsellino e Haidi Giuliani, donne diversissime, provenienti da mondi lontani, che si sono capite e riconosciute. Qui è arrivato Armando Gasiani, deportato a Mauthausen, originario di Anzola nell’Emilia, Comune di cui Felicia era cittadina onoraria, e tra lui e Felicia, che conosceva bene solo il siciliano, non c’è stato nessun problema di comunicazione. Le Resistenze, tutte le Resistenze, da quella antifascista a quella antimafiosa a quella antiliberista, si sono incontrare nel più naturale dei modi. (…) Qui è passata la storia dell’Italia migliore, non solo della Sicilia, ma di tutta l’Italia”.