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L’11 luglio 1977 Martin Luther King viene premiato “postumamente” con la Medaglia della libertà con le seguenti parole: “Martin Luther King fu la coscienza della sua generazione. Fissò con il suo sguardo il grande muro della segregazione e vide che la forza dell’amore avrebbe potuto abbatterlo. Attraverso il dolore e lo sfinimento della lotta per mantenere le promesse fatte dai nostri padri fondatori ai nostri cittadini più umili affermò saldamente il suo sogno per l’America. Ha reso la nostra nazione più forte perché l’ha resa migliore. Il suo sogno ci sostiene ancora”.
Promotore delle battaglie per i diritti civili della popolazione nera degli Stati Uniti, Martin Luther King è diventato il simbolo della lotta contro la segregazione razziale. Vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1964, viene assassinato il 4 aprile 1968 nel pieno della sua battaglia. Viene ucciso da un colpo di fucile mentre era sul balcone di un motel a Memphis da James Earl Ray, un criminale comune razzista. Come la maggior parte dei grandi eventi e degli omicidi politici del Novecento, il suo assassinio è ancora oggi circondato da misteri e circostanze non chiare che con ogni probabilità rimarranno tali per sempre.
Il suo discorso pronunciato nell’estate del 1963 di fronte ad un corteo di oltre 200 mila persone che pacificamente aveva invaso il centro di Washington invocando la legge sui diritti civili e cantando black and white together è ormai diventato storia: “Io ho un sogno - diceva il pastore battista - che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!”.
“Qualcuno - scriveva l’Unità due giorni dopo la sua morte - afferma che l’assassinio di Martin Luther King segna l’inizio della estate della paura. Più esattamente noi diremmo che i barbari del nostro tempo vengono chiamati alla resa dei conti. In America prima di tutto, dove il conto da pagare - il conto di cento anni di schiavismo - sarà estremamente elevato. Nel mondo in secondo luogo, in un mondo che comprende, ormai, come il fenomeno nazista si possa riprodurre, sebbene in forme diverse, ogni volta che una grande potenza che nutre al suo interno il cancro del razzismo pretende al tempo stesso di imporre la propria legge con la forza delle armi o con una politica di intimidazione, di violenza, di ricatto, di corruzione”.
Su richiesta della vedova Coretta King al funerale del marito (svoltosi ad Atlanta, alla presenza dell’ex First Lady Jacqueline Kennedy, del vicepresidente Hubert Humphrey e di decine di migliaia di persone) sarà letto l’ultimo sermone che il reverendo aveva pronunciato il 4 febbraio di quell’anno. La bara venne trascinata da un carro con due asinelli della Georgia. Nel suo epitaffio si leggeva: “Free at last” (finalmente libero).
King non volle che fossero menzionati i suoi premi o altri onori che aveva ricevuto; chiese solamente di esser ricordato come una persona che si era impegnata per “dare da mangiare agli affamati, coprire coloro che non avevano i vestiti, essere chiaro e duro sulla questione della guerra in Vietnam e amare e servire l’umanità”.
“Sono stato in cima alla montagna - diceva il reverendo il giorno prima di essere ucciso - E non mi importa. Come tutti, vorrei vivere una vita lunga. La longevità ha la sua importanza. Ma non mi interessa ora, voglio fare il volere di Dio. E Lui mi ha permesso di salire in cima alla montagna. E ho guardato giù, e ho visto la terra promessa. Potrei non arrivarci con voi. Ma voglio che sappiate stasera che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. Sono così felice stasera. Non sono preoccupato di niente. Non temo nessun uomo”.
Barack Obama aveva due anni quando il 28 agosto del 1963 250 mila persone ascoltavano Martin Luther King al Lincoln Memorial. Cinquant'anni dopo parlerà nello stesso luogo da presidente degli Stati Uniti; il primo afro-americano a entrare alla Casa Bianca.
Con lui il deputato John Lewis, l’unico ancora vivente tra quelli che parlarono nella Marcia del 1963. “Abbiamo fatto tanta strada in questo Paese negli ultimi 50 anni – dirà – ma abbiamo tanta strada ancora da fare prima di realizzare il sogno di Martin Luther King”. Sì: abbiamo ancora tanta strada da fare.