Il 9 gennaio del 1950 a Modena si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. La polizia spara sulla folla provocando la morte di sei lavoratori: Angelo Appiani, ucciso proprio davanti alle Fonderie; Renzo Bersani, colpito a morte lontano dagli scontri mentre cerca di fuggire; Arturo Chiappelli, raggiunto dai proiettili della polizia vicino alla Fonderia; Ennio Garagnani, ucciso lontano dagli scontri; Roberto Rovatti, colpito con i calci dei fucili della celere, gettato in un fosso e finito con un colpo sparato a distanza ravvicinata; Arturo Malagoli, colpito davanti al passaggio a livello della vicina ferrovia.

La Cgil, al termine della riunione straordinaria del suo esecutivo, dirama il seguente comunicato: “La segreteria della Cgil, riunita in seduta straordinaria in seguito al nuovo e più grave eccidio consumato dalle forze di polizia contro il proletariato di Modena, esprime l’indignata protesta di tutti i lavoratori italiani per il sistema del facile massacro di lavoratori inermi in lotta per il loro diritto al lavoro e il proprio sentimento profondo di commossa solidarietà alle famiglie delle vittime e ai lavoratori modenesi”.

La Cgil rileva “il carattere strettamente sindacale dell’agitazione di Modena, i cui lavoratori avevano attuato uno sciopero limitato a poche ore e avevano inteso protestare presso le fabbriche interessate contro la serrata effettuata dagli industriali in seguito alla opposizione delle organizzazioni sindacali all’attuazione di licenziamenti ingiustificati. La solita versione ufficiale, secondo la quale i lavoratori avrebbero sparato contro le forze di polizia, è totalmente falsa e assurda. Nessuna persona ragionevole può credere che i lavoratori siano sempre i primi a sparare contro la polizia e che i morti siano sempre ed esclusivamente dalla parte dei lavoratori stessi”.

La segreteria della Cgil “denuncia al Paese il sistematico e illegale intervento delle forze armate dello Stato nelle vertenze sindacali e sempre in difesa dei privilegi e delle prepotenze padronali”. In conclusione, la segreteria confederale “approva le decisioni prese in giornata da tutte le Camere del lavoro dell’Emilia di attuare lo sciopero generale il giorno 10 gennaio e l’analoga decisione presa dalla Federazione nazionale dei metallurgici di attuare pure per il 10 gennaio lo sciopero generale della categoria in tutto il Paese”.

“La crisi del 18 aprile non si risolve con i massacri”, tuona dalle colonne dell’Unità Pietro Ingrao. “Affoga nel sangue il governo del 18 aprile”, titola l’Avanti!. Nella città attonita accorrono, insieme a Palmiro Togliatti e Giuseppe Di Vittorio, i vertici nazionali del Pci, del Psi, della Cgil.

A Torino, Firenze, Palermo, Venezia, Livorno, Milano, Bari, Alessandria, Genova e Verona vengono organizzate proteste e scioperi generali per l’intera giornata. A Roma circa 100 mila manifestanti accorrono in piazza Santissimi Apostoli. “Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!” è il titolo a otto colonne dell’Unità del 10 gennaio, ma non sono soltanto i giornali della sinistra a condannare.

La deputata modenese Gina Borellini, medaglia d’oro alla Resistenza, esprime la propria indignazione alla Camera dei deputati con un gesto plateale: con difficoltà (in quanto amputata a una gamba) si alza dal suo scranno e lancia le foto degli operai morti in faccia al presidente del Consiglio De Gasperi che il 12 gennaio rassegna le dimissioni ponendo fine al suo quinto governo.

Dirà Palmiro Togliatti il giorno dei funerali: “Voi chiedevate una cosa sola, il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta. Maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nelle mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l’assassinio e l’eccidio respingono la richiesta più umile che l’uomo possa avanzare; la richiesta di lavorare”.

Prosegue il segretario del Pci: “È stato detto che questo stato di cose deve finire. È stato detto: basta! Ripetiamo questo basta, tutti assieme, dando a esso la solennità e la forza che promanano da questa stessa nostra riunione. Ma dire basta non è sufficiente, perché gli assassinii e gli eccidi si succedono come le note di una tragedia, in modo tale che non ha nessun precedente nel nostro Paese, e che tutti riempie di orrore. Non è sufficiente dire basta, dobbiamo impegnarci a qualche cosa di più”.

Togliatti così conclude: “Noi vogliamo la pace sociale e la pace tra i popoli. Anche a questo governo e agli uomini che lo dirigono abbiamo offerto e chiesto una politica di distensione e dì pace. A milioni di lavoratori che appoggiavano questa nostra offerta e richiesta, si è risposto con le armi da fuoco, con l’assassinio, con l’eccidio. Non possiamo non tener conto di questa risposta. È di fronte a essa che dobbiamo assumerci un nuovo impegno”.

Il giorno successivo, Pietro Nenni scriveva un fondo sull’Avanti! affermando che “il governo cattolico di De Gasperi e Scelba, con la sua politica di fame, odio e paura, ha condotto al delitto permanente”.

“Si noti - affermava una settimana più tardi dalle colonne di Lavoro Giuseppe Di Vittorio - che tutti questi lavoratori sono stati uccisi unicamente perché chiedevano di lavorare, gli uni sulla terra incolta, gli altri nella fabbrica serrata (…). I lavoratori sono stanchi di piangere i loro morti e non sono affatto disposti a lasciar soffocare nel sangue i loro bisogni di lavoro o di vita. La Cgil con la sua forza e il suo prestigio è riuscita sinora a contenere in limiti normali la protesta popolare contro gli eccidi. Ma la storia insegna che, al di là di un tale limite, nessuna forza umana può garantire i confini entro i quali possa essere contenuta una collera popolare lungamente compressa. Questo è il monito che viene da Modena”.

Così Marisa Malagoli Togliatti, figlia adottiva di Palmiro Togliatti e Nilde Iotti e sorella di Arturo, ricorderà anni dopo l’accaduto: “Il giorno in cui venne ucciso, ricordo che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata. Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c’era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo c’era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all’obitorio dell’ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti”.

Gianni Rodari, inviato dell’Unità, qualche giorno dopo i funerali pubblicherà una poesia dal titolo Bambino di Modena. “La città gloriosa - scriveva quel giorno il poeta - ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze. (…) Le bare erano portate a spalla da operai, ferrovieri, tramvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto (…). Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli. Dietro le bare camminavano i familiari composti nell’atroce dolore. Alcuni di loro, poche ore dopo la morte dei loro cari, sono intervenuti al comizio di protesta a cui ha partecipato tutta la città, e solo la parola ‘eroismo’ può definire questa capacità di fondere un dolore personale alla grande voce di una protesta collettiva”.

“Modena, 9 gennaio 1950: una città fondata sul lavoro”, scriveva qualche tempo fa Arturo Ghinelli: “Io non c’ero per il semplice motivo che ero ancora nella pancia di mia madre. Infatti sono nato sei mesi dopo, l’undici luglio. Ma quello che successe quella mattina di gennaio influenzò non poco la mia vita. Il mio stesso nome viene da lì. Io mi chiamo Arturo perché tra i sei operai uccisi dalla polizia davanti alle Fonderie c’era mio zio Arturo Malagoli, fratello di mia madre. (…) Riflettendo penso di aver capito perché mi è sempre piaciuto studiare e poi insegnare storia. Tuttavia non ho mai insegnato ai miei ragazzi gli avvenimenti del 9 gennaio 1950, perché mi sento troppo coinvolto emotivamente. Una sola volta mi è scappato detto: ‘Un mio zio è stato ucciso dalla polizia’. ‘Perché era un ladro?’, mi hanno chiesto. No, mio zio non era un ladro. Mio zio era un lavoratore che lottava per ottenere il diritto al lavoro per tutti come dice l’articolo 1 della Costituzione”. Come dice l’articolo 1 della Costituzione.

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I fatti di Modena nei documenti della Cgil:

Leggi il verbale del Comitato esecutivo del 10 gennaio 1950

Leggi il verbale di Segreteria del 25 gennaio 1950

Leggi il verbale di Segreteria dell’11 febbraio 1950