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Giuseppe Di Vittorio nasce a Cerignola (Foggia) l’11 agosto 1892. In realtà il certificato di nascita riporta la data del 13 agosto essendo stato il bambino dichiarato all’anagrafe, una volta cosa comune, due giorni più tardi. Il padre Michele è un lavoratore dei campi e tutta la famiglia è costituita da braccianti agricoli. La madre si chiama Rosa Errico.
Nel 1902 Michele muore in seguito a una malattia contratta sul lavoro: Peppino, che è solo un bambino, è costretto ad abbandonare la scuola elementare per essere avviato al lavoro nei campi. La sua infanzia viene raccontata in maniera mirabile da Gianni Rodari sul Pioniere.
Nel 1904 Di Vittorio ha 12 anni. Partecipa a una manifestazione di lavoratori agricoli durante la quale interviene la polizia. Quattro lavoratori vengono colpiti a morte. Fra questi un suo giovane amico quattordicenne, Antonio Morra, una vicenda che tanto influenzerà la vita e le scelte, umane e politiche, del giovane Peppino.
Nel 1910, alla fine di novembre, diventa segretario del circolo giovanile socialista di Cerignola che prende il nome di “14 maggio 1904” proprio per ricordare l’eccidio consumato in quell’anno. Partecipa quindi all’esperienza del sindacalismo rivoluzionario e aderisce all’Unione sindacale italiana (Usi), ricoprendone dal 1913 la carica di componente del Comitato centrale. Nello stesso anno diventa segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge.
Nel 1921 viene eletto deputato mentre è detenuto in carcere. Nelle liste dei partiti di sinistra vengono candidati dirigenti politici e sindacali detenuti per aver guidato o preso parte alle lotte. Sono “candidature di protesta” che consentono ai nuovi eletti di passare dal carcere a Montecitorio. È il caso di Di Vittorio, detenuto a Lucera per aver guidato la lotta dei braccianti contro agrari e fascisti.
La sua elezione in Parlamento - scrive Michele Pistillo - rappresenta “un fatto politico di prima grandezza in Puglia. Per la prima volta nella loro storia i braccianti agricoli inviavano alla Camera dei Deputati uno di loro, non ancora trentenne, ma noto e popolare come pochi tra le masse lavoratrici. Queste avevano perfettamente compreso il grande significato della sua elezione e l’avevano appoggiata massicciamente”.
Nel 1923, dopo la chiusura della Camera del lavoro di Bari, Di Vittorio decide di trasferire la famiglia a Roma preoccupandosi di trovare una casa che abbia un pezzo di terra da lavorare. “Faceva la spola - ricorderà Raffaele Pastore - la mattina fino alle 12 il contadino, il pomeriggio a Roma per fare il deputato”. Va avanti così fino al 13 settembre 1925, quando viene arrestato.
Scarcerato il 10 maggio 1926, non resta molto in libertà: subisce altri arresti che inducono il Partito comunista, cui ha aderito nel 1924, a farlo espatriare. Fra il 1928 e il 1930 è in Urss, rappresentante del Pcd’I presso l’Internazionale contadina. Nel 1930 va a Parigi e nel 1936 è fra i primi ad accorrere in Spagna partecipando all’organizzazione delle Brigate internazionali.
Il lungo esilio di Di Vittorio termina il 10 febbraio 1941 quando è arrestato in Francia dai nazisti (i primi incontri tra Giuseppe Di Vittorio e Bruno Buozzi avvengono nel carcere parigino ‘de La Santé’ nel febbraio 1941).
Estradato in Italia, viene rinchiuso nel carcere di Lucera e poi avviato al confino di Ventotene. Lascerà l’isola solo il 22 agosto 1943.
Liberato nel 1943 raggiunge Roma dove viene nominato dal Governo Badoglio commissario del Sindacato dei lavoratori agricoli. La Roma che Peppino ritrova nel 1944 dopo l’ingresso delle truppe alleate è una città completamente diversa da quella che ha lasciato 17 anni prima: è una Roma che il segretario sente più sua, nella quale si riconosce in quanto rappresentante del popolo lavoratore protagonista della lotta al fascismo e della ricostruzione morale e materiale del Paese. È la Roma di quel Patto che ci farà rinascere dopo le macerie della guerra e della dittatura.
Il 3 giugno 1944, poche ore prima della liberazione della Capitale da parte degli Alleati, il lavoro di dialogo unitario avviato già negli anni Trenta tra i principali esponenti del sindacalismo italiano culmina nella firma del Patto di Roma (l’accordo ufficiale porta la data del 9 giugno, ma sarà antidatato per onorare la memoria di Bruno Buozzi, barbaramente ucciso dai nazisti il 4 giugno). La Cgil unitaria nasce dal compromesso tra le tre principali forze politiche italiane e il Patto di Roma è siglato da Giuseppe Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani, Emilio Canevari per i socialisti.
Dal 28 gennaio al 1° febbraio 1945 si tiene a Napoli il Congresso della Cgil delle zone liberate. In quella occasione verranno eletti i primi segretari generali della Cgil: Di Vittorio per i comunisti, Grandi per i democristiani e Oreste Lizzadri per i socialisti.
Nel 1946 viene eletto deputato dell’Assemblea costituente. È il relatore della Terza sottocommissione, incaricata di redigere le norme costituzionali sui diritti sociali ed economici. Sarà grazie all’impegno della Cgil che principi e istituti fondamentali quali la libertà sindacale, la contrattazione collettiva e il diritto di sciopero entreranno nel testo finale.
L’anno successivo si tiene a Firenze il Congresso della Cgil. Giuseppe Di Vittorio sceglie, come componente della segreteria confederale, un giovanissimo Luciano Lama.
Il rapporto tra Lama e Di Vittorio è un rapporto molto speciale, nato nel 1945 quando Luciano partecipa - in qualità di segretario della Camera del lavoro di Forlì - al Congresso nazionale della Cgil a Napoli. “Ricordo il freddo gelido della sala dove ci riunimmo”, racconterà nel 1979: “Venimmo in due: Nino Laghi e io. Altri due compagni vennero da Bologna e al ritorno, nel ripassare le linee, furono uccisi”.
“Di Vittorio gioca con sorprendente spregiudicatezza la sua carta”, scriverà Giancarlo Feliziani in Razza di comunista: “In queste giornate di lavoro avvicina a più riprese Luciano Lama, giovanissimo e ignoto segretario di Camera del lavoro, lo stimola, lo lascia parlare, lo ascolta, presta attenzione alle sue parole, ma in realtà ha già deciso: gli proporrà di diventare vice segretario della Cgil. In sostanza, il suo braccio destro”.
Dirà Lama anni dopo in un’intervista: “Non l’ho mai saputo il perché - l’ho chiesto a Togliatti, a Luigi Longo… l’ho chiesto a Di Vittorio. E ognuno di questi mi ha risposto così: «Ma che ti interessa di saperlo… l’importante è che lo sei diventato!»”. Luciano è al fianco di Di Vittorio ai funerali delle vittime dell’eccidio di Modena del 1950 e compare sempre più spesso al suo fianco nei viaggi ufficiali tanto che, si racconta, a volte veniva scambiato per il figlio.
Dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, che vedono la netta affermazione della Democrazia cristiana e la sconfitta del Fronte popolare (Pci e Psi), e dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio, cui la Cgil reagisce con lo sciopero generale politico, la corrente democristiana decide la scissione. Il periodo delle scissioni sindacali si protrae per circa due anni, dall’estate del 1948 alla primavera del 1950.
La fase successiva alle scissioni è una delle più difficili per il sindacato italiano, segnato da profonde divisioni ideologiche. Inoltre la repressione poliziesca, condotta dalla famigerata “Celere” potenziata dal ministro degli Interni Mario Scelba, causerà la morte di decine di lavoratori durante manifestazioni e scioperi. La città simbolo di questi eccidi è Modena dove il 9 gennaio 1950 moriranno sei operai, ma la maggior parte delle vittime si avrà nei piccoli paesi del Sud (tra gli altri Melissa, Montescaglioso, Torremaggiore, Celano); le regioni più colpite saranno la Sicilia e la Puglia.
La Cgil prova a uscire dall’isolamento attraverso una proposta politica forte, lanciata al II Congresso di Genova (1949) e nota con il nome di “Piano del lavoro”. Ai lavori preparatori del Piano partecipa un altro giovane del quale sentiremo parlare, Bruno Trentin.
“La morte di Di Vittorio - dirà anni dopo - ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito. Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze, e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e – retorica a parte – semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre ‘provocatorio’, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni”.
Nel 1953 Di Vittorio viene eletto presidente della Federazione sindacale mondiale. Nel gennaio dello stesso anno partecipa al II Congresso della Cultura popolare.
Nell’ottobre precedente aveva intanto lanciato l’idea di uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, formulando una proposta destinata ad assumere una grandissima importanza nella storia del nostro Paese.
Nell’agosto dello stesso anno Peppino compie 60 anni. Un avvenimento importante, che i suoi festeggiano prima a Cerignola - il 3 agosto - poi alla Spezia.
Scrive la moglie Anita nelle proprie memorie: “Il 3 agosto 1952 tutta Cerignola era in festa. Forse fu quella la più grande festa della città. Peppino, il bracciante, il ‘cafone’, ebbe manifestazioni straordinarie di affetto e di gratitudine da tutti i suoi concittadini e compagni di lotta. Regali simbolici: pane, cicoria, mandorle, olio, frutta d’ogni genere e poi medaglie, pergamene, oggetti d’ornamento per la casa gli vennero offerti da delegazioni giunte da tutta la Puglia. Di Vittorio rispose a quell’infinito affetto con uno dei suoi più significativi discorsi, forse il più bello, il più semplice, il più umano”.
“Abbiamo fatto molta strada assieme, caro Di Vittorio”, gli scriveva Palmiro Togliatti: “Assieme abbiamo lavorato, resistito, combattuto. Siamo stati alla scuola delle persecuzioni e dell’esilio, ma anche alla grande scuola del movimento operaio comunista internazionale (…) Così abbiamo potuto conoscerci a vicenda e io ho conosciuto in te, prima di tutto, il figlio devoto di quel popolo italiano, di cui provasti le sofferenze e di cui possiedi le grandi capacità di intelligenza e tenacia”.
Togliatti così conclude: “Saluto in te il militante proletario, artefice ostinato e capo della grande organizzazione unitaria degli operai e di tutti i lavoratori italiani. Saluto il dirigente comunista, temprato a tutte le prove. Saluto l’uomo semplice, che ha saputo non perdere mai il contatto diretto, di sentimento e di passione, di sdegno per le condizioni non umane di oggi e di speranza nell’avvenire, anche con il più povero e abbandonato dei lavoratori”.
Quelli sono anni intensi: gli anni della legge truffa, della vertenza sul conglobamento, della sconfitta della Fiom alle elezioni interne alla Fiat del 1955. Gli anni dell’infarto, il primo. Arriviamo così al 1956: l’anno horribilis di Giuseppe Di Vittorio. L’anno della convalescenza dopo l’infarto dell’ottobre precedente, l’anno dei “fatti di Ungheria”.
In questo periodo travagliato, nei suoi ultimi mesi di vita, Di Vittorio trova sollievo nelle passeggiate che, quando può, si concede insieme alla moglie Anita, che ricorda: “Dopo una giornata di lavoro intenso, la sera volle fare una passeggiata all’aria nei pressi dell’Eur, poco distante da casa nostra. Camminammo a lungo scoprendo nuove strade e nuove e più belle costruzioni”.
Prosegue Anita: “Talvolta anche Peppino mi accompagnava a fare la spesa al mercato: prima facevamo un lungo giro attorno alla piazza fitta di carrettini, di bancarelle, di ceste, poi decidevamo gli acquisti. Ma durante il primo giro d’ispezione, quasi tutti i rivenditori lo riconoscevano e qui cominciava il guaio. Infatti, dopo averlo salutato gli mostravano i loro prodotti decantandone le qualità e il prezzo. Finiva che, un po’ imbarazzati e per non deludere nessuno, compravamo molta più roba di quanta ce ne occorresse”.
Ricorda ancora la moglie di Di Vittorio: “Il 1° novembre era la festa di Ognissanti e Peppino non si recò in ufficio. Poté quindi riposarsi più del consueto e nella tarda mattinata facemmo una passeggiata a Villa Borghese. Nonostante fosse autunno inoltrato a Roma non faceva freddo. Camminammo a lungo per i viali della villa, sotto i pini (...) Arrivammo fino a via Nazionale con la macchina. Qui scendemmo per fare una passeggiata (...) Passeggiavamo piano, guardando le vetrine illuminate (...) Proseguimmo fino a via Cavour (...) Riprendemmo la macchina fino a largo di Santa Susanna. Appena scesi fummo fermati da due giovani, che camminavano tenendosi per mano. Salutarono Di Vittorio con entusiasmo, senza timidezza, poi, franchi e sicuri gli dissero: «Dobbiamo sposarci a gennaio. Vuoi sposarci tu, in Campidoglio? Ci porterà fortuna». Peppino a tali parole - come sempre gli accadeva in situazioni simili - si emozionò. «Sarò lietissimo di farlo. Ve ne ringrazio. Soltanto non so se sarò a Roma, in quel periodo. Bisogna che mi avvertiate in tempo»”.
Ma Peppino non potrà mantenere la promessa: morirà infatti poco dopo, il 3 novembre 1957. Muore a Lecco, dove si era recato con la moglie Anita per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro. Il viaggio della salma è indimenticabile. A ogni stazione ferroviaria il treno deve sostare più a lungo per la folla che, a pugno chiuso, si riversa nelle piazze a salutare Peppino.
“Al passaggio del treno in ogni città, in ogni paese, in ogni casolare - riporta ancora Anita nelle proprie memorie - la salma era stata salutata dall’affetto di tutta la nazione, da tutti i lavoratori italiani. Lo lessi in seguito pure sui giornali. Ricordo di aver letto anche che tre donne, temendo che il treno non si fermasse in un casolare di campagna, in Emilia, si erano allungate sui binari per farlo sostare. Vogliamo vederlo e salutarlo per l’ultima volta, il nostro Di Vittorio! E lo avevano ricoperto di tanti fiori”.
Continua Anita: “Quanta gente attendeva Peppino… Vollero portarlo a braccia fino alla sede della Confederazione del lavoro in corso d’Italia. Peppino a casa non venne!… La sua, la nostra casa era vuota… In camera da letto erano rimasti i passaporti e i biglietti per la Cina, quei biglietti che ormai non servivano più! Le valigie già pronte per il viaggio giacquero parecchi giorni abbandonate sul pavimento. Su una sedia la sua giacca da camera attendeva di essere indossata. Nelle ore che seguirono, molte persone illustri vennero a visitarmi. Lavoratori sconosciuti e amici di vecchia data vennero a esprimermi il loro dolore”.
Conclude la moglie di Di Vittorio: “Dalla Puglia fu un susseguirsi di amici. Venne quasi tutta Cerignola. Valanghe di telegrammi, di lettere, di messaggi vennero a lenire il mio immenso sconforto. La camera ardente, allestita nella sede della Cgil, fu meta di un vero e proprio pellegrinaggio di amici e avversari politici (...) Vennero a salutarlo i presidenti dei due rami del Parlamento italiano, ministri, scrittori, scienziati, sindacalisti e uomini politici. Vennero preti e suore, donne del popolo, ragazzi, operai, impiegati, professionisti. Tutti sostarono ore intere in lunga fila, per rendere l’estremo omaggio al loro difensore”.
Sette anni prima di Palmiro Togliatti, 27 anni prima di Enrico Berlinguer, è il primo vero lutto collettivo della sinistra italiana. “Tutto pare come sospeso - osservava il giorno dei funerali Pier Paolo Pasolini - , rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto, attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città (…) Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi”.
Prosegue Pasolini: “Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va”.
Conclude lo scrittore: “Guardo quelle schiene un po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da un’infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere (…) Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi”.
“Diecimila, ventimila persone?”, riportava l’Unità il giorno successivo: “Impossibile fare un calcolo. Così come è impossibile descrivere il sentimento della gente, la commozione che era nel volto di tutti: Giorgio Amendola con gli occhi rossi di lacrime, Longo con le labbra serrate, Pajetta con lo sguardo annebbiato dal dolore, una donna vestita di scuro con le guance rigate da due lacrime accorate, un impiegato che aveva afferrato le mani di Lizzadri e singhiozzava come un bambino. Per ore e ore quasi ininterrottamente fino a tarda notte e poi dall’alba fino alle 16, una fiumana di gente ha sfilato commossa davanti alle spoglie del segretario generale della Cgil, nell’atrio della Confederazione, in corso d’Italia, trasformato in camera ardente”.
Così continua l’articolo: “Erano lavoratori romani, operai, impiegati, professionisti, uomini politici, compagni, amici, avversari di Giuseppe Di Vittorio (...). C’erano camerieri con ancora indosso la giacca bianca, vigili notturni, telefonisti, gente che era appena uscita dai teatri, uomini di tutte le età che, forse, di Di Vittorio conoscevano soltanto il volto bruno e amico riprodotto dai giornali (...) Tutti i negozi lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè. Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere”.
L’Unità prosegue: “Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso d’Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso”.
L’articolo così si chiude: “Quando il carro funebre è giunto, verso le 17.40 al piazzale delle Scienze, una donna è giunta a toccare la bara e ha detto: Peppino, non te ne dovevi andare, abbiamo ancora tanto bisogno di te. La sua affettuosa parola sintetizzava i sentimenti della grande folla che lentamente si ammassava nel piazzale, caduta la sera, sotto la luce di potenti riflettori che illuminavano il palco eretto al fondo, le corone, le bandiere, i visi dei presenti”.