PHOTO
Da bracciante poverissimo e semianalfabeta nella Puglia dei primi anni del Novecento a fondatore del più grande sindacato dell’Italia democratica, deputato all’Assemblea costituente, esponente di spicco del Partito comunista nel dopoguerra e presidente della Federazione sindacale mondiale: Giuseppe Di Vittorio – nato a Cerignola l’11 agosto del 1892 – è una vita avventurosa e intensa, che spesso sfiora i confini della leggenda, senza però mai perdere di vista i valori più preziosi: il lavoro e la democrazia.
Se Togliatti è il capo indiscusso della classe operaia, Di Vittorio ne è il mito, un mito che nasce dalla sua identificazione totale con il mondo del lavoro in un riconoscimento trasversale e assoluto. “Più di ogni altra la figura - scriveva qualche anno fa su Repubblica Filippo Ceccarelli - di Di Vittorio si staglia per qualcosa di molto speciale, un’ispirazione che ancora oggi sfugge a qualsiasi giudizio ideologico: l’umanità. E l’allegria. A sfogliare le vecchie riviste, fra tante foto di comunisti pallidi, gelidi e affilati, colpisce il fatto che lui e solo lui, Peppino, ride e sorride. Aveva quel dono lì. Anche questo lo rendeva un capo. Max Weber ha scritto pagine definitive sull’arte del comando e sui profeti carismatici. Di Vittorio suscitava nelle folle prodigiosi meccanismi d’immedesimazione. Ma il prodigio nel prodigio stava nell’intelligenza con cui di slancio riusciva a incanalarli nella realtà delle lotte e delle soluzioni possibili”.
“Lo volevano bene anche le pietre”, dicevano i suoi braccianti. Ed è proprio questa l’immagine che dalla storia ci viene restituita: quella di una persona presente, empatica e attenta, dall’immensa personalità e carica umana. Un uomo, prima che un politico o un sindacalista, circondato da affetto vero, amato da familiari, compagni e lavoratori, stimato dagli stessi avversari come antagonista duro, ma leale.
Peppino muore il 3 novembre 1957 a Lecco, dove si era recato per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro. Il viaggio della salma è indimenticabile. Ad ogni stazione ferroviaria il treno deve sostare più a lungo per la folla che, a pugno chiuso, si riversa nelle piazze per salutarlo. Tre giorni dopo, in una Roma attonita e commossa, si svolgeranno i funerali.
“Il dolore della folla si è espresso profondo e acuto come quello di una famiglia - scriveva su l’Unità Paolo Spriano -. Forse neppure Di Vittorio immaginava di avere tanti amici, tanta gente di ogni ceto sociale che se ne partiva ora di casa, e veniva qui a gettargli un fiore, e dirgli che gli voleva bene”.
“Tutto pare come sospeso - scriveva Pier Paolo Pasolini su Vie Nuove - rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città”.
Sette anni prima di Palmiro Togliatti, 27 anni prima di Enrico Berlinguer, la morte di Giuseppe Di Vittorio è il primo vero lutto collettivo della sinistra italiana.
Dal Patto di Roma all’Assemblea costituente, dal Piano del lavoro allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Peppino di fatto ricostruisce il sindacato sulle macerie del fascismo e della Seconda guerra mondiale affrontando, con coraggio e spirito unitario, le scissioni seguite all’attentato a Togliatti, la crisi della sconfitta alla Fiat, del XX Congresso del Pcus, gli eventi drammatici di Polonia e d’Ungheria.
Scelba gli ritira il passaporto nella primavera del 1952, impedendogli di recarsi a New York al Consiglio economico e sociale dell’Onu come presidente della Federazione sindacale mondiale (già due volte Peppino è volato negli Stati Uniti, privilegio unico per un comunista).
Protestano tutti. I tassisti di Milano, la vetroceramica di Napoli, i mezzadri di Pesaro, gli operai delle Tornerie Ruote Officina Locomotive di Verona, l’Anpi di Reggio Emilia, le donne comuniste di Crema, i lavoratori di Palermo (a loro nome firma Emanuele Macaluso), i braccianti di Alfonsine.
Di Vittorio è un deputato della Repubblica. I parlamentari della Cgil protestano con il presidente della Camera. È il giovane Luciano Lama a gestire la pratica. “Tra Lama e Di Vittorio si instaura un rapporto particolarissimo - scrive Feliziani -. Per Lama, Di Vittorio è un maestro di vita, per certi versi un secondo padre. Ha stima incondizionata e grande tenerezza per quel dirigente straordinario in grado di guidare scioperi, indirizzare congressi ma anche capace di addormentarsi improvvisamente nel bel mezzo di una riunione. Per Di Vittorio, uomo appassionato e dalla forte personalità, autonomo nel pensiero e non condizionato da vincoli di appartenenza politica, un uomo schietto che ha dedicato la vita alla causa del lavoro, mai disposto ad accettare ordini, neppure se arrivano dalle Botteghe Oscure o da Togliatti in persona, per Di Vittorio quel giovane con la faccia aperta ai dubbi rappresenta il futuro, la speranza, l’entusiasmo, l’intelligenza politica. Ma quel giovane disinvolto e laureato in Scienze sociali rappresenta anche ciò che lui, bracciante poverissimo, avrebbe voluto ma non è riuscito a essere. Quei due uomini diventano inseparabili: dove c’è Di Vittorio, un passo indietro, c’è sempre anche Luciano Lama che giorno dopo giorno va assumendo nel sindacato un ruolo di sempre maggior spicco. La sua ascesa irresistibile è nelle cose, nell’organizzazione quotidiana, nella progettualità della Cgil”.
Siamo nella primavera del 1952, Peppino sta per compiere 60 anni. Un avvenimento importante, che i suoi festeggiano prima a Cerignola - il 3 agosto - poi a La Spezia.
“Abbiamo fatto molta strada assieme, caro Di Vittorio - gli scriverà Togliatti - Assieme abbiamo lavorato, resistito, combattuto. Siamo stati alla scuola delle persecuzioni e dell’esilio, ma anche alla grande scuola del movimento operaio comunista internazionale (…) Così abbiamo potuto conoscerci a vicenda ed io ho conosciuto in te, prima di tutto, il figlio devoto di quel popolo italiano, di cui provasti le sofferenze e di cui possiedi le grandi capacità di intelligenza e tenacia (…) Saluto in te il militante proletario, artefice ostinato e capo della grande organizzazione unitaria degli operai e di tutti i lavoratori italiani. Saluto il dirigente comunista, temprato a tutte le prove. Saluto l’uomo semplice, che ha saputo non perdere mai il contatto diretto, di sentimento e di passione, di sdegno per le condizioni non umane di oggi e di speranza nell’avvenire, anche con il più povero e abbandonato dei lavoratori”.
Seguiranno anni intesi: gli anni della legge truffa, della vertenza sul conglobamento, gli anni della sconfitta della Fiom alle elezioni interne alla Fiat del 1955 dell’autocritica, gli anni dell’infarto, il primo.
Il 1956 è l’annus horribilis. L’anno della convalescenza dopo l’infarto dell’ottobre precedente, l’anno dei “Fatti di Ungheria”. Peppino morirà poco dopo, il 3 novembre 1957.
“Diecimila, ventimila persone? - scriveva l’Unità il giorno dei funerali -. Impossibile fare un calcolo. Così come è impossibile descrivere il sentimento della gente, la commozione che era nel volto di tutti: Giorgio Amendola con gli occhi rossi di lacrime, Longo con le labbra serrate, Pajetta con lo sguardo annebbiato dal dolore, una donna vestita di scuro con le guance rigate da due lacrime accorate, un impiegato che aveva afferrato le mani di Lizzadri e singhiozzava come un bambino. Per ore e ore quasi ininterrottamente fino a tarda notte e poi dall’alba fino alle 16, una fiumana di gente ha sfilato commossa davanti alle spoglie del segretario generale della Cgil, nell’atrio della Confederazione, in Corso d’Italia, trasformato in camera ardente”.
E ancora: “Erano lavoratori romani, operai, impiegati, professionisti, uomini politici, compagni, amici, avversari di Giuseppe Di Vittorio (…). C’erano camerieri con ancora indosso la giacca bianca, vigili notturni, telefonisti, gente che era appena uscita dai teatri, uomini di tutte le età che, forse, di Di Vittorio conoscevano soltanto il volto bruno e amico riprodotto dai giornali (…) Tutti i negozi, lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè. Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere. Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a Piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso”.
Un compagno, un amico prezioso che non smetterà mai di mancarci ed al quale affettuosamente, come ogni anno, diciamo: “Buon compleanno, Peppino”.