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Il 7 giugno 1984 Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, viene colto da un malore dopo un comizio elettorale a Padova nel corso della campagna elettorale per le Europee.
Berlinguer non si ferma neanche davanti al dolore fisico. Continua a parlare tra gli applausi e la commozione di chi ha capito che qualcosa di terribile sta per accadere e pronuncia quello che diventerà a tutti gli effetti il suo testamento politico: “Lavorate tutti - dirà - casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo, è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà!”.
È un momento che si protrae in un tempo che sembra essere infinito, un susseguirsi di immagini entrate nel triste immaginario collettivo di tutte e tutti noi. “Enrico! Enrico! Enrico!”, grida il suo popolo, che però - commosso e attonito - alla fine lo prega di fermarsi: “Basta, Enrico! Enrico, per favore, fermati!”. Le sue ultime parole s’intuiscono appena. Lo fermano, lo portano via.
Il segretario del Pci rientra in albergo dove entrerà in coma. Dopo il consulto con un medico viene trasportato all’Ospedale Giustinianeo e ricoverato in condizioni drammatiche. Morirà l’11 giugno successivo, dopo quattro giorni di coma, a 62 anni.
“Caduto in battaglia è una brutta espressione retorica, eppure è così”, scriveva sull’Unità Luigi Pintor: “È tragico, e sembra quasi un ammonimento per noi, che si sia spezzato sotto questa tensione. Fece molto di più di una scelta politica come può essere intesa oggi, si identificò con una causa ideale e ne fece un modo d’essere”.
“Quelle immagini del palco di Padova danno l’idea della coerenza integrale di Berlinguer”, dirà anni dopo Walter Veltroni: “Chiunque si sarebbe fermato, lui invece arriva alla fine e appena chiude il comizio riesce persino a sorridere. Ho sempre pensato che la politica non è un mestiere, è una missione che richiede sacrificio. Berlinguer ce lo ha detto”.
L’Italia tutta vive con commossa partecipazione, minuto per minuto, l’evolversi del quadro clinico del segretario, fino al tragico epilogo.
“Per la prima volta - scriveva Carlo Ricchini nel 2016 sul blog giubberosse di Pietro Spataro -, ed ero redattore capo da diversi anni, sentii trasmettere quell’ordine: ‘Fermate le rotative!’. Non era in un film, era la sera di giovedì 7 giugno 1984, nella redazione romana dell’Unità. La prima edizione stava ‘girando’. Si sentiva il rumore e il vibrare delle macchine, quando giunse da Padova la voce di Ugo Baduel, rotta dall’angoscia e gridata nel telefono. “Berlinguer sta male… mentre parlava sul palco è stato colto da malore… lo portano in ospedale”. Quando Ugo, l’inviato che seguiva sempre il segretario, telefonò la seconda volta, la redazione era quasi al completo. Il direttore Macaluso aveva fatto richiamare tutti. Ora era seduto dietro la scrivania nel box in fondo allo stanzone, attorniato da tutti noi: bisognava valutare e decidere come dare la notizia, ci furono altre telefonate con Ugo che era riuscito a strappare i primi giudizi dei medici. Emanuele Macaluso, la mano sulla fronte, meditò ancora per minuti che sembravano interminabili, poi chiese ancora a noi qualche consiglio”.
Prosegue Ricchini: “La prima pagina viene rifatta. Le rotative erano rimaste ferme un’ora a Roma e a Milano. Titoliamo Berlinguer gravissimo, su nove colonne. Da quella sera alcuni di noi non toccarono più il letto, non c’erano soste. Si preparano pagine speciali, edizioni straordinarie. I titoli dei giorni seguenti saranno il giorno dopo, sabato: L’Italia con il fiato sospeso, e domenica parole più drammatiche: Berlinguer condizioni disperate. Sempre a tutta pagina il titolo di lunedì 11 giugno: Ti vogliamo bene Enrico, che interpretava il sentimento di angoscia e di profonda stima che si respirava in tutto il Paese. Ma aveva anche il sapore del messaggio di commiato. Lo stesso giorno, alle 12 e 45, la fine. Con il nodo alla gola si preparò la prima edizione straordinaria, titolo grande, in nero, maiuscolo: È MORTO”.
“Quando mi dissero che era morto, scoppiai in un pianto convulso”, raccontava Alberto Menichelli, autista storico del segretario, guardia del corpo e amico: “Mi tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i giornali alle sette e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta' zitto, ho nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo”.
Perché in fondo Berlinguer era questo: rigore e umanità, compostezza ed empatia. È stato il segretario più amato del Partito comunista, quello che lo ha portato al massimo consenso storico. Quello che ha emozionato le folle, avuto una visione, lottato per un orizzonte. Ma era pure un uomo che perdeva 50 mila lire in un libro, finiva per indossare una scarpa diversa dall’altra o si fermava a giocare a calcetto in strada con suo figlio e i suoi amici sotto gli occhi divertiti di Aldo Moro.
Era una persona perbene, nella definizione di chiunque lo abbia conosciuto. Il leader italiano più carismatico degli ultimi decenni, come dimostrarono comizi oceanici, funerali e memoria tramandata. Un uomo diventato icona (“non è la Madonna”, ironizzava Eugenio Scalfari) al quale ancora oggi - forse soprattutto oggi - guardiamo con un affetto velato di nostalgia.
“Berlinguer era un uomo che sosteneva con forza l’idea dell’etica nella politica”, ricordava pochi giorni dopo la sua morte Luciano Lama: “Ci credeva davvero. Ci sono quelli che non vogliono proprio sentire parlare di etica, anzi stabiliscono due categorie diverse: uno è il campo della morale, l’altro il campo della politica. Quindi politica come carriera, come successo, come potere, forse anche come corruzione. Poi la morale. Bene: questa scissione lui proprio non l’accettava, era il rovescio esatto della concezione che aveva dell’integrità”.
Così Lama continua: “Certo, capita spesso che chi ha questa concezione della vita politica viene definito integralista, moralista. Lo è veramente se pretende di fare agli altri la lezione che magari non applica alla propria persona. Del resto il rispetto è sincero anche da parte dei ladri. Non è vero che i ladri disprezzano gli onesti, non è vero che i corrotti disprezzano gli integerrimi. Alla base di questo sentimento di solidarietà, di dolore sincero, c’è un sentimento profondo che riguarda un uomo che aveva una diversità: quella di essere pulito, quella di mettere gli interessi personali al di sotto di quello che lui considerava il bene del Paese”.
Un Paese che il giorno dei funerali scende in piazza compatto e commosso per dire addio non a Berlinguer ma a Enrico, non al politico ma all’uomo. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, fa trasportare la sua salma sull’aereo presidenziale dichiarando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”. A rendergli omaggio andrà anche il nemico per eccellenza, quel Giorgio Almirante, capo dei fascisti del Msi ai quali Berlinguer non rivolgeva nemmeno la parola perché - come disse in una tribuna politica del 1972 - “io coi fascisti non parlo”.
Al funerale, a Roma il 13 giugno, partecipa circa un milione e mezzo di persone. Il corteo con la bara sfila dalla sede del Pci, in via delle Botteghe Oscure, a piazza San Giovanni e un lamento collettivo risuona in continuazione: “Enrico, Enrico”. Dal palco parlano, tra gli altri, Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti. Da Gorbaciov a Zhao Ziyang, da Marchais a Carrillo, ad Arafat, dai comunisti delle Filippine e di Israele, della Jugoslavia e della Corea, Berlinguer riceve l’attestato di leader internazionale.
“Chiuso in una cassa di legno chiaro, coperta dal drappo rosso e dal tricolore, Berlinguer è tornato a casa, in questa dolce sera romana, accolto dai suoi compagni che lo applaudono come per abbracciarlo e, a squarciagola, scandiscono il suo nome”, scriverà Repubblica.
Riprendendo le parole di Roberto Benigni, dirà Natalia Ginzburg: “Abbiamo tutti pensato non soltanto che era successa una ‘tragedia politica’, ma abbiamo pensato che la sua morte era per ognuno di noi una disgrazia personale, una perdita personale. Ci siamo accorti che ognuno di noi aveva con lui un rapporto fiducioso e confidenziale, anche se ci eravamo limitati ad ascoltarlo nella folla d’una piazza. Fu un momento in cui, come aveva detto Benigni, ‘il firmamento bruciava’. La sensazione che ‘bruciava il firmamento’, in quei giorni, l’abbiamo avuta tutti”.
Il 17 giugno successivo alle elezioni europee il Pci decide di lasciare Enrico Berlinguer come capolista. Il Partito comunista italiano raggiungerà il 33,3% superando la Democrazia cristiana. Sarà questo l’ultimo regalo di Berlinguer al suo partito, quel Partito che era riuscito a portare al suo massimo storico, quando nel 1976 il Pci arrivò al 34,4%.
“Morire a 62 anni è come nascere a 24 mesi: uno non ci crede”, diceva Roberto Benigni: “E io sono sicuro che fra una settimana Berlinguer apparirà alla televisione con una bella camicia hawaiana. Io aspetto”. E in fondo, forse, tutte e tutti noi aspettiamo ancora.