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Da quando abbiamo creato la task force ‘Natura e Lavoro’ e pubblicato il piccolo e-book ‘Attenti ai dinosauri’ (Manifesto libri), abbiamo parlato con molti gruppi di ragazzi – da Fridays for future alle ‘Sardine’, alle tante organizzazioni ambientaliste già da tempo strutturate. Con l’obiettivo di far fare, tutti assieme, un salto di qualità alla nostra comune battaglia per impedire il disastro ecologico, peraltro, ogni giorno peggiore e più vicino del previsto. Innanzitutto, lo abbiamo fatto per dare un carattere più vertenziale e meno propagandistico alla nostra iniziativa.
Abbiamo cercato anche, anzi, in primis, un contatto con i sindacati, tant’è vero che il nostro nome contiene la parola lavoro, perché sono proprio i lavoratori che avevamo in mente quando ci siamo impegnati in questa impresa: quelli più esposti nell’immediato al rischio, che la ormai indilazionabile transizione ecologica, che non sarà affatto indolore, li renda vittime. E che, se vogliamo impedirlo, ci impone di metterci al più presto in condizione di controllare le misure che vengono prese, denunciando le insidie dei ‘furbetti verdi’ in corso di moltiplicazione, così come quelle di chi, come il signor Bonomi, non fanno nemmeno la fatica della furbizia.
Bisogna ottenere che la perdita di lavoro nei settori inquinanti venga accompagnata dall’avvio di progetti concreti, che prevedano l’immediato avvio di opere indispensabili per tutti, ma anche capaci di riassorbire la perdita del lavoro precedente. Le risorse per gli investimenti pubblici necessari ad avviare un nuovo modello di produzione e di consumo ci sono, e sono quelle europee della ‘new generation’, ma è grande il rischio che vengano utilizzate per fare altro, senza preoccuparsi dell’urgenza di creare nuova occupazione.
Tutti gli scambi che abbiamo avuto sono stati interessanti, ma ogni volta, prima di concludere, è stato naturale chiedersi: tutte le cose che rivendichiamo, e che non pioveranno dal cielo, chi le farà? Quali sono, insomma, le gambe della nostra azione, i suoi soggetti combattenti? La domanda ce la siamo posta tutti, la risposta è stata generalmente scarsa. E allora è di questo che vorrei parlare. Innanzitutto al sindacato. Perché un tempo era chiaro che il soggetto primo e principale di una simile lotta sarebbe stata la classe operaia organizzata, in particolare quella delle grandi fabbriche, che sono state sempre all’avanguardia.
Oggi – lo sappiamo – non è più così facile che ciò avvenga: l’offensiva di destra che abbiamo subìto dagli anni Ottanta, accompagnata da un uso iniquo delle nuove tecnologie e dalla globalizzazione (che non è internazionalizzazione!) ha prodotto una deliberata frantumazione del processo produttivo, mirato a indebolire la classe operaia. Contemporaneamente, nuove contraddizioni, anch’esse radicate nel sistema dominante, sebbene meno visibilmente di quella capitale-lavoro, sono emerse e hanno reso più difficile l’unità spontanea degli sfruttati: quella ecologica, quella di genere, quella razziale, che si è drammaticamente acutizzata.
Tutto questo ci impone di ripensare e ridefinire il soggetto antagonista, di cui c’è bisogno per non restare vittime in questa fase di trapasso così complessa. Per prima cosa, ci occorre prendere atto che si aprono, accanto a quelli tradizionali del luogo di lavoro, altri terreni di riaggregazione e di costruzione di vertenze e possono delinearsi fronti più compositi di quelli di un tempo.
Il territorio – il quartiere, il paese, la zona – diventa in tale contesto un’agorà preziosa, una base strategica e, in fieri, una zona liberata. Fu proprio questa, nei primi anni Settanta, l’intuizione che portò i più illuminati consigli di fabbrica, che allora muovevano i loro primi significativi passi, a capire che era necessario creare anche i consigli di zona. Dove, infatti, si intrecciarono le lotte per la salute, la casa, la scuola, e si unirono produttori e consumatori, che sono poi spesso elementi della stessa persona.
Ebbene, credo che quando Maurizio Landini, nel suo primo discorso da segretario generale, al congresso di Bari, accennò alla necessità di ‘un sindacato di strada’, affiancato a quello di categoria, non pensasse solo a uno strumento per intercettare il dilagante lavoro precario comandato da invisibili algoritmi, ma anche di aggregare altri soggetti sociali: pensionati, studenti, piccoli imprenditori e artigiani, ciascuno dei quali, da solo, può poco, ma potrebbe avere maggior forza se si accordasse con chi ha interessi largamente comuni.
Del resto, non sarebbe una gran novità: la Cgil è stato un sindacato molto forte, anche per via del ruolo assegnato alle sue strutture orizzontali, le Camere del lavoro. La battaglia ecologica è quella che potrebbe più di ogni altra avvantaggiarsi di questo modo di organizzarsi, condividendo inchieste, lotte, sedi dove incontrarsi: perché è sul territorio che si vince la battaglia per cambiare il modello energetico, per riorganizzare il tessuto urbano, così da ridurre lo spreco, per cambiare nel profondo il rapporto fra zone urbane e agricole, che è una delle principali chiavi della battaglia ecologista.
Il sindacato dei pensionati, in particolare l’Auser, e quello degli edili, hanno tenuto un convegno per attrezzarsi a operare assieme per utilizzare al meglio il famoso 110% per la ristrutturazione del patrimonio abitativo. Che altro è questo, se non un embrione di sindacato di strada? Cui potrebbero e dovrebbero unirsi gli studenti, per rifare, reinventandola, la loro scuola. E le femministe per trovare il modo di socializzare il lavoro di cura. Vogliamo provarci?
Luciana Castellina, ex parlamentare, giornalista e scrittrice