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Scrive un collega dei Copernicani: “Circa un lustro fa, mentre stavo ancora maturando l'idea di licenziarmi da una grande azienda italiana, provai a chiedere all’ufficio delle risorse umane se ci fosse la possibilità di lavorare da casa. ‘Stiamo partendo con un progetto pilota - mi risposero -, al momento abbiamo dieci persone con comprovate esigenze, come difficoltà motorie, ma è necessario provvedere comunque noi all’acquisto dei beni della loro postazione”. Cinque anni dopo, per l'appunto, la maggior parte di quell’azienda lavora da casa.
La pandemia è stata un enorme acceleratore di processi già in atto, in diversi domini, ma nel mondo lavorativo l’accelerazione è stata più impressionante che altrove. Secondo il ministero del Lavoro, lo smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.
La definizione di lavoro agile è contenuta nella legge 81/2017, che pone l'accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l'accordo individuale e sull'utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto, come pc portatili, tablet e smartphone. Ai lavoratori agili viene garantita la parità di trattamento - economico e normativo - rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie.
La differenza tra il telelavoro e lo smart working potrebbe essere intesa come segue: il telelavoro riguarda la prestazione di attività caratterizzate da un elemento temporale trascorso al di fuori della sede di lavoro, un elemento tecnologico relativo agli strumenti utilizzati ed un elemento di localizzazione presso la propria abitazione o altra sede del lavoratore; lo smart working aggiunge l’elemento di autonomia temporale e l’elemento della organizzazione per obiettivi.
Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, nel 2019 lo smart working era una realtà nel 58% delle grandi imprese con 570.000 smart workers: un dato in crescita del 20% rispetto al 2018 e quadruplicato rispetto al 2013. Indubbiamente, la pandemia ha accelerato un trend esistente, facendo vincere molte remore alla remotizzazione del lavoro. Secondo uno studio appena pubblicato da Microsoft, in seguito all’emergenza sanitaria, la quota di imprese italiane che ha adottato il lavoro flessibile è passata dal 15% del 2019 al 77% nei primi mesi di quest’anno.
Il mondo del lavoro italiano è però cambiato, di fatto, il 23 febbraio 2020, con l’approvazione di un decreto legge che, per rispondere all’emergenza da Coronavirus, rendeva automatico il ricorso allo smart working, o lavoro agile, per le aziende nelle zone a rischio che potevano svolgere attività a domicilio e a distanza. Fino a quel momento, il lavoro a distanza era molto raro: era richiesto dal singolo lavoratore all’azienda e sancito con un accordo individuale, ai sensi della legge 81 / 2017. Dopo l’annuncio del lockdown nazionale, il 9 marzo scorso, per molte aziende divenne l’unico modo per restare aperte; in pochi mesi, dipendenti, manager e datori di lavoro ne hanno esplorato benefici, potenzialità e difficoltà.
I vantaggi per le aziende che hanno voglia d’investire in tal senso sono indubbi. Innanzitutto, overhead ridotti per i numerosi costi fissi eliminabili: la sede, ovviamente, se non eliminabile, almeno fortemente riducibile nella metratura richiesta. E poi altri vantaggi più immateriali e di lungo periodo, come l’accesso a un pool di talenti davvero globale, a prescindere da dove si trovino nel mondo. Un vantaggio non da poco, in un mondo che non necessariamente si scoprirà più globale all’uscita dal tunnel Covid-19. Inoltre, la grande scoperta del lockdown è stato l’aumento di produttività registrato da quasi tutte le aziende. Secondo la già citata ricerca di Microsoft, l’87% degli italiani ha riscontrato una produttività pari o superiore rispetto a quando lavorava in ufficio.
Ciò pone una questione: alla luce di questi risparmi aziendali e dell’aumento della produttività, è giusto stabilire un bonus per chi lavora da casa? È vero che il dipendente risparmia in benzina, tessere della metro e pasti al ristorante, ma è anche vero che consuma più elettricità, caffè, un pasto, deve pagare la connessione (se non ce l’ha già) e dotarsi dell’attrezzatura necessaria: tutti noi sappiamo quanto abbiamo dovuto adattare le nostre stanze per le conference call, e per dare un’idea di professionalità anche nel contesto domestico. Nei Paesi Bassi, per esempio, i dipendenti pubblici che hanno lavorato da casa riceveranno quest’anno un bonus di 363 euro; alcune aziende offrono servizi di lavanderia porta a porta, o altre convenienze per i lavoratori con figli.
Ma anche i lavoratori hanno i loro benefici: in primis, una flessibilità sconosciuta in precedenza sul posto di lavoro, che ovviamente dipende molto dalla capacità dei manager di riuscire davvero a gestire le proprie risorse umane per obiettivi. I vantaggi sono anche potenzialmente di gender-equality: in una coppia, storicamente in Italia, la parte che si trovava a sacrificare la propria carriera era spesso quella femminile. Adesso, è possibile vivere insieme, anche se le aziende hanno sedi in città diverse, e nessuno deve rinunciare alle proprie aspirazioni.
Il tempo recuperato dal commuting, poi, può essere re-investito in formazione, svago, relax. E, in generale, anche la qualità delle relazioni può aumentare: non si è più obbligati a prendere il caffè con i colleghi, ma si possono vivere le pause della ‘pomodoro technique’ con i propri affetti più prossimi, inclusa la possibilità di seguire più da vicino le relazioni con i propri figli.
I benefici si estendono per riflesso anche alla società: esiste un grande potenziale di rigenerazione della provincia e dei piccoli centri italiani, per i sindaci ‘illuminati’ che riusciranno a intercettarlo. Si è visto come le città, già oggi, siano meno congestionate, con un inquinamento minore e un sostanziale abbassamento dei costi delle proprietà immobiliari, per ora assai limitato, ma che nel lungo periodo potrebbe essere sostanzioso, specie se si sommerà alla progressiva riduzione della popolazione italiana. Un percorso che potrebbe, per una volta, avvantaggiare i giovani e incentivare una maggiore mobilità della scala mobile sociale vs le posizioni di rendita di capitale.
Ogni rosa ha le sue spine e lo smart working non fa eccezione. I problemi più impattanti sono quelli quotidiani e operativi: per chi ha tutta la famiglia in casa, la condivisione della banda potrebbe creare delle criticità e delle tensioni, fra il piccolo che deve seguire le lezioni di Dad e il papà urlante per una riunione che l’ha innervosito. Inoltre, il digital divide potrebbe affievolire l’impatto della ricollocazione della forza lavoro sul territorio italiano. Per chi lavora a partita Iva, e non solo, indubbiamente il business development diventerà più complesso e l’allargamento della propria rete di contatti più rara: le nuove rendite di posizione potrebbero diventare quelle sul network, ora. Infine, sarà ineluttabilmente più difficile anche riuscire ad amalgamare team nuovi o che non lavorano insieme da molto tempo.
Un'indagine dell'Università di Valencia avverte che l'utilizzo di dispositivi tecnologici di controllo per organizzare la distribuzione dei compiti e dell'orario di lavoro nel caso dello smart working può portare a una violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori. Con l'aumento del telelavoro, alcune aziende potrebbero esercitare una sorveglianza elettronica del lavoratore e utilizzare software che misurino ogni secondo trascorso davanti al computer. Queste misure di sorveglianza non sono legalmente utilizzabili quando invadono la privacy del lavoratore e della sua famiglia, la protezione dei dati personali, la segretezza delle comunicazioni e il diritto alla propria immagine.
D’altro canto, una misurazione delle attività è pure necessaria per la corretta retribuzione delle attività straordinarie, per assicurare la salvaguardia di quel ‘diritto alla disconnessione’ che, seppure non esplicitamente codificato nel nostro ordinamento, è rinvenibile nella tutela della salute psicofisica del lavoratore e, in generale, per assicurare che l’attività svolta sia coerente e non eccessiva rispetto alle previsioni contrattuali.
La sfida per le organizzazioni sindacali nel ventunesimo secolo sarà quindi relativa alla capacità di farsi interprete della necessità di stabilire e verificare misure e strumenti per la definizione di punti di equilibrio tra queste esigenze contrastanti e di rappresentare i lavoratori nella vigilanza rispetto a possibili abusi codificati nei sistemi software utilizzati dai lavoratori.