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Il Piano di Rilancio e Resilienza del governo di Mario Draghi è stato approvato e trasmesso alla Commissione Europea dal Governo Italiano. Alcune analisi mettono in evidenza i miglioramenti rispetto alle bozze che erano circolate durante il precedente governo. Se miglioramenti ci sono stati nelle altre Missioni (le macro aree d’intervento previste dal documento) non possiamo dire lo stesso per quanto riguarda la Missione 4 - Componente 2, ossia quella che tratta della ricerca scientifica di base e applicata. La nota negativa fondamentale è relativa all’impianto stesso di questa parte del Pnrr che mantiene essenzialmente inalterata la struttura della bozza redatta dal Governo Conte e non recepisce minimamente la proposta programmatica rappresentata dal Piano Amaldi. Infatti il Piano Amaldi, oltre alla parte finanziaria, mirava a una profonda riforma del sistema della ricerca scientifica pubblica e privata, articolata in quattro punti:
- Aumento del numero dei ricercatori e allineamento degli stipendi agli standard Eu; sburocratizzazione del sistema ricerca attualmente soggetto a tutti i vincoli della Pa.
- Istituzione di bandi competitivi per progetti di grande rilevanza scientifica sia individuali (sul modello Erc) che istituzionali.
- Potenziamento delle infrastrutture di ricerca esistenti e costruzione di nuove infrastrutture.
- Creazione di un network territoriale per il trasferimento tecnologico verso le imprese sul modello del Fraunhofer tedesco.
Ovviamente il Pnrr non è un disegno di legge di riforma della ricerca scientifica pubblica. Tuttavia, come detto sopra, la struttura dei capitoli e il profilo temporale di spesa non riflettono assolutamente alcuna linea guida previste dal Piano Amaldi malgrado questo si sia consolidato in una proposta programmatica precisa anche attraverso un lungo dibattito pubblico che ha visto protagonisti alcuni tra i maggiori scienziati italiani. Sembra poco comprensibile che né il Ministro Manfredi prima, né la Ministra Messa poi si siano fatti carico di portare in modo forte e deciso questa istanza al Ministro dell’Economia e allo stesso Primo Ministro negli scorsi quattro mesi.
Un Piano dimenticato per strada
Lo stesso Mario Draghi ha infatti dichiarato che “non si spendono bene i soldi senza riforme” e quindi la mancata implementazione sostanziale del Piano Amaldi nel Pnrr è da considerasti un grave errore che il Paese pagherà negli anni a venire. Alcune dichiarazioni da ambienti governativi suggeriscono inoltre che il Piano Amaldi verrà implementato con la legge di bilancio del prossimo anno: è buffo come per oltre trent’anni i finanziamenti ordinari e strutturali alla ricerca pubblica siano stati sistematicamente decurtati usando come giustificazione la scarsità endemica di risorse e ora che vengono messe a disposizione circa 200 miliardi di euro di risorse straordinarie alla ricerca vanno poco più che briciole.
Ma è o non è il motore?
Dal canto nostro, abbiamo infatti ripetuto infinite volte che la ricerca scientifica è il motore principale dello sviluppo economico dei paesi avanzati e non a caso i paesi che hanno crescite sostenute investono il 3% del Pil in ricerca, come infatti raccomanda la commissione EU (senza contare paesi come Israele e la Corea del Sud che investono in ricerca cifre ancora maggiori).
A oggi l’Italia investe in ricerca (pubblica e privata) solo l’1.4% del Pil e in ricerca pubblica di base e applicata solo lo 0.5% (9 miliardi di cui 6 in ricerca di base e 3 in ricerca applicata).
Il Piano Amaldi si proponeva di arrivare in sei anni a investire l’1% del Pil (circa 20 miliardi l’anno) per agganciare in termini relativi la spesa in ricerca pubblica tedesca. A ottobre il Ministro Manfredi si impegnò per allocare risorse, in 5 anni, per arrivare a 15 miliardi/anno ma poi, come si è detto, nella Bozza del Pnrr prodotta durante il suo mandato (e sostanzialmente ereditata dalla Ministra Messa) non si trovano cifre confrontabili. Nella versione approvata dal Parlamento, se si sommano le voci mappabili sul Piano Amaldi, si arriva, per la ricerca di base, a circa 5 miliardi fino al 2026 di cui molto poco rimane come spesa strutturale: si stima che si passerebbe dall’attuale 0.5% del Pil meno dello 0.6%. Gli altri 5 miliardi del Pnrr vengono destinati alla ricerca applicata e al trasferimento tecnologico, ma anche qui senza un vero e proprio modello e una strategia chiara.
Investimenti poco efficienti
Risorse cospicue continuano ad essere messe sui Competence Center che si sono rivelati un modello poco efficiente per il trasferimento tecnologico essendo mirati soprattutto al project management ma mancano di infrastrutture proprie e soprattutto di personale tecnologo specializzato a interfacciare il mondo dell’accademia con quello delle imprese.
Nuovi centri di eccellenza vengono creati con probabili sovrapposizioni con enti già esistenti come Cnr, Enea, Infn e Iit. Ancora, i Campioni Territoriali di R&S (ben 9 centri) che dovrebbero assomigliare agli High Performance Centers del Fraunhofer tedesco in realtà sembrano entità a sé stanti non inserite in un vero network di cui non si capisce nemmeno a chi spetterebbe la Governance. Sembra che i 5 miliardi per questa componente siano spesi senza una vera strategia, o comunque siano insufficienti se si prendono seriamente le implicazioni insite nel dispiegamento di una simile quantità di nuovi enti e centri di ricerca.
Stratificazioni che si accumulano
Lungi da avere un vero e proprio sistema della ricerca l’Italia presenta una serie di stratificazioni che si sono accumulate negli anni senza una vera logica di sistema perché ogni volta si è pensato di intervenire all’interno di un singolo “dominio” con un approccio tutto sommato clientelare.
In Italia ci sono ben 97 Università, di cui 67 statali, 19 non statali ma legalmente riconosciute e 11 Università non statali telematiche legalmente riconosciute. Inoltre ci sono 23 Enti Pubblici di Ricerca (Epr) con 14 enti vigilati dal Mur (tra i quali, il Consiglio Nazionale delle Ricerche – Cnr, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – Infn e l’Agenzia Spaziale Italiana – ASI); 6 vigilati da altri ministeri (tra i quali, l’Istituto Superiore di Sanità – Iss vigilato dal Ministro della Salute e l’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l'Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile per le Energie – Enea vigilata dal Ministero dello Sviluppo Economico); 3 non vigilati direttamente (tra i quali, la Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia – IIT sottoposta alla vigilanza congiunta del Mur e del Ministero dell’Economia e delle Finanze e Human Technopole – HT sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze, del Ministero della Salute e del Mur). Oltre agli Epr troviamo 51 Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs), di cui 21 sono pubblici e 30 privati, tutti sottoposti sotto la vigilanza del Ministero della Salute. Alla composizione della “rete” della ricerca partecipano anche i 10 Istituti Zooprofilattici Sperimentali (Izzss) e i 23 Parchi Scientifici e Tecnologici che sono presenti su tutto il territorio nazionale.
Manca l'attore centrale
Al contrario, manca invece un attore coordinato centralmente ma dispiegato territorialmente che si occupi in modo strutturato di trasferimento tecnologico verso il mondo delle imprese. In passato si è tentato di attribuire questo ruolo a Epr come Cnr e Iit che chiaramente non hanno questa mission nel loro Dna come è facile capire analizzando la struttura dei loro finanziamenti quasi tutti provenienti da fondi pubblici e ben poco da servizi alle imprese. Per un confronto il network tedesco del Fraunhofer vede solo 1/3 del suo bilancio provenire da stato centrale e lander mentre 1/3 deriva da bandi competitivi nazionali (che l’Italia non ha) e 1/3 da servizi alle imprese.
Non esiste alcuna integrazione reale tra industria e ricerca scientifica capace di interconnettere le due gambe del sistema (ricerca pubblica di base e applicata) e ricerca industriale mirata all’innovazione. La barriera è bi-direzionale e ostacola un efficace processo di trasferimento tecnologico e valorizzazione economica della ricerca da parte del sistema industriale.
Cercasi disperatamente logica di sistema
L’elevato numero di tentativi in relazione di realizzare un vero trasferimento tecnologico in Italia hanno sempre fallito perché si è tentato di cambiare la mission di realtà esistenti o si sono aggiunte ulteriori realtà senza una logica di sistema. Spiace dire che nel Pnrr si continua a commettere lo stesso sbaglio creando nuovi Enti o Centri che vanno a sovrapporsi in gran parte a ciò che già esiste e i cui scarsi risultati raggiunti sono dovuti l’assenza totale di coordinamento tra gli stessi.
Ora che l’occasione del Pnrr sembra persa è necessario che Governo e Parlamento affrontino la questione ricerca in modo strutturale, varando un disegno di legge per una vera riforma del sistema ricerca che superi sia le resistenze del mondo accademico verso la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico che quelle del mondo industriale verso la ricerca di base pubblica. A sua volta la ricerca pubblica va riorganizzata profondamente eliminando stratificazioni, duplicazioni, inefficienze e dotata di una vera governance di sistema.
Federico Ronchetti, Alice Run Coordination Nuclear Physicist at Cern