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L'articolo che segue è tratto dal n.4/2020 di Idea Diffusa, il mensile a cura dell'Ufficio lavoro 4.0 della Cgil realizzato in collaborazione con Collettiva. Clicca qui per leggere tutti gli articoli di questo numero dedicato alle smart cities.
I grandi agglomerati urbani sono chiaramente i maggiori centri d’irradiazione dell'innovazione tecnologica e i motori dello sviluppo dei nostri sempre più complessi sistemi economici. Le aree metropolitane sono realtà territoriali che, da sempre, producono e usano un’enorme quantità di dati. La crescita esponenziale dei dati prodotti, raccolti e processati, grazie alla potenza di calcolo attualmente installata, in aumento vertiginoso e costante, ci sta portando a un punto di svolta. Gli algoritmi predittivi hanno raggiunto un sofisticatissimo livello qualitativo e consentono di calcolare gli effetti delle scelte e d’influenzare il comportamento dei cittadini. Inoltre, rendono possibile un’efficacia di gestione di nuovi servizi e una libertà di progettazione mai vista prima. Ma fino a qui siamo alla retorica della ‘smart city’. La città da consumare, progettata dalle Big tech companies.
Indubbiamente Milano si colloca, tra le città metropolitane italiane sulla frontiera dell’innovazione digitale. L’ amministrazione ha lavorato molto in tal senso, anche attraverso l’istituzione di un assessorato ‘ad hoc’. Da alcuni anni, è stato lanciato il fascicolo digitale del cittadino. Dal sito del Comune di Milano ogni cittadino milanese può accedere al proprio fascicolo con tutti i dati che lo riguardano. Prima del Covid, il 51% dei certificati dell’anagrafe veniva già rilasciato on line. In collaborazione con la Camera di commercio, è stato creato il cassetto dell’imprenditore, che semplificando l’iter autorizzativo, rende possibile a Milano aprire una società semplice in soli quattro giorni. Molti servizi pubblici e sociali sono riorganizzati mediante applicazioni on line.
Tuttavia, la stragrande maggioranza dei dati e degli algoritmi che fanno funzionare il sistema metropolitano sfuggono al controllo pubblico. Invece, le amministrazioni e le persone che quotidianamente vivono la città conoscono e hanno accesso solo a una minuscola parte dei dati generati individualmente e collettivamente nel loro territorio. Ogni giorno, subiscono un processo di ridisegno della città, deciso da chi i dati li ha accumulati, li possiede, li stocca, li gestisce, li vende, spesso neppure legittimamente. Nonostante, in astratto, appartenenti alle persone che li generano, la maggior parte di questi dati sono oggi in mano, in modo spesso esclusivo, a piattaforme di servizi e d’intermediazione di varia natura.
Le amministrazioni metropolitane acquistano dai grandi colossi tecnologici spesso prodotti standard turn key, (si veda, ad esempio, la vicenda della sperimentazione 5G). Ciò riduce la libertà di scelta, crea dipendenza dal fornitore e produce risultati difficilmente controllabili, stante l’asimmetria informativa. Lo squilibrio di conoscenza diventa squilibrio di potere, ai danni del bene comune e della partecipazione popolare.
Da tempo, la Camera del lavoro di Milano denuncia tale squilibrio, ed ha proposto alle istituzioni metropolitane di discutere un piano regolatore ‘ad hoc’. Da qui, su nostra richiesta, è stato avviato un primo momento di confronto, partendo dalla consapevolezza che, se l’accesso ai dati è un problema trasversale a molti servizi urbani, dall’ambiente all’urbanistica, dalla salute al lavoro, ai trasporti, ed essendo la negoziazione in oggetto pionieristica e complessa, sia quasi una via obbligata iniziare isolando un singolo ambito d’intervento o un settore, tra quelli più sentiti e su cui è già più forte l’impatto tecnologico, in modo da poterne controllare le variabili. Una sorta di laboratorio urbano, dal quale far emergere risultati tangibili e far crescere la consapevolezza dell’importanza della sfida in atto, per poi estendere questo approccio data oriented agli altri settori.
Noi abbiamo proposto al Comune e alla Città Metropolitana di Milano di partire dal settore della mobilità urbana. La condivisione e lo studio dei dati possono dare un grande contributo ad arrestare la diffusione del contagio e rispondere più efficacemente ai nuovi bisogni di mobilità. L'obiettivo successivo a questo primo laboratorio è la ridefinizione dei diritti di proprietà dei dati, processo che sarà inevitabilmente lungo, globale e conflittuale. Siamo sempre stati consapevoli dell’enormità della sfida. Mettere le mani nel complesso meccanismo dell’accumulazione capitalistica, fondato sul possesso dei dati, che alimentano i processi data driven nella filiere delle tecnologie dell’informazione e dei servizi digitali, significa sfidare interessi pervasivi e radicati nell’economia, nella società e nella politica.
In questi ambiti, l’idea del ‘laissez faire’ è egemonica. Un piano regolatore è visto come un’ipotesi eretica. Lo abbiamo sperimentato nelle prime fasi del confronto, dalla 'timidezza’ con cui l’amministrazione comunale milanese ha approcciato la discussione, pur aderendo al percorso che abbiamo proposto. Un esempio di ciò è stata la vicenda 5G: un’occasione persa. Milano, infatti, sarà l’area più grande d’Europa per la sperimentazione 5G. Quando abbiamo proposto d’inserire nei bandi per le installazioni delle antenne e dei dispositivi tecnologici, clausole di libera consultabilità dei dati aggregati, ci è stato risposto che ormai è troppo tardi. Il processo è avviato.
Ma noi non la pensiamo così. Ribadiamo che l’accessibilità ai dati d’interesse pubblico va considerato un bene comune e un diritto. Deve trasformarsi in una precisa rivendicazione e tradursi in clausole da inserire in tutti i futuri bandi di gara, le concessioni e le autorizzazioni, senza escludere sensori e antenne. Tale diritto di accesso deve poi essere richiesto anche alle imprese che non necessitano di concessioni o autorizzazioni, ma che consumano e vendono dati prodotti in ambito metropolitano.
In fondo, si tratta di pretendere che le città decidano di utilizzare strumenti e prerogative, delle quali già ora dispongono. Si tratta di volerlo, sapendo che già esistono tecnologie che ci permettono d’interrogare i dati, preservando la privacy degli individui, per rispondere a specifiche domande d’interesse generale. Tuttavia, in questa fase, Comune e Città metropolitana hanno scelto, pur di essere nel gruppo di testa delle città sperimentatrici, di non porre alcun vincolo agli operatori.
Se si vuole ribaltare questa concezione dei rapporti con i fornitori di tecnologia e le piattaforme, serve sviluppare alleanze vaste fra le forze sociali, nella società civile e nella politica. Per questo, stiamo ricercando il massimo di unitarietà e un consenso ampio, che vada oltre la tradizionale base del lavoro dipendente, a questa 'nuova forma’ di negoziazione con la Città metropolitana. Si tratta di un terreno tutto da dissodare, che sfugge alle prassi e ai riti della rappresentanza sindacale, così come l’abbiamo conosciuta sinora. Esercitare i tradizionali rapporti di forza, attraverso lo sciopero, è molto complicato in questo contesto. Pertanto, dobbiamo trovare vie nuove che affianchino e siano complementari alle forme di pressione che meglio conosciamo.
Per l’autunno, stiamo progettando una consultazione aperta alla città, scegliendo strumenti ancora inutilizzati. Perciò, con l’aiuto della Fondazione Rete civica di Milano, stiamo imparando a conoscere e utilizzare Decidim, la pionieristica piattaforma digitale, sviluppata a Barcellona dalla giunta di Ada Colau, per favorire e incentivare la partecipazione popolare al processo decisionale della politica. In tale fase di convivenza col virus e di distanziamento fisico tra le persone, strumenti come Decidim si possono rivelare indispensabili per coniugare efficienza, tempestività e partecipazione popolare all’elaborazione collettiva e all’assunzione delle decisioni. Anche dentro al sindacato.
A cura del Dipartimento Innovazione e territorio Camera del lavoro metropolitana di Milano