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Il 7 gennaio 2021 è stato, come qualcuno ha sostenuto con una metafora piuttosto azzardata, l’11 settembre della regolamentazione dei poteri privati del web? Se il riferimento che avvicina il giorno in cui vi è stato il blocco di Donald Trump sui social media a quello dell’attacco alle Torri Gemelle sottintende un possibile ground zero per le questioni relative ai rapporti tra libertà di espressione, (auto)regolamentazione delle piattaforme e asimmetria tra le sensibilità costituzionali proprie delle due sponde dell’Atlantico, allora si tratta di un paragone corretto. Quanto meno il paragone è corretto rispetto all’esigenza di ricostruire un dibattito che sia finalmente capace di superare la semplificazione rappresentata dal dilemma tra autoregolamentazione (self regulation) statunitense e normativa vincolante (hard law) europea e che abbia due obiettivi più ambiziosi, che restituiscano la complessità dello scenario. Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di svelare le contraddizioni interne proprie di ciascuno due modelli. Il secondo quello di proporre un linguaggio che sia in grado di costituire un humus unitario, al di là delle evidenti differenti visioni costituzionali tra le due sponde dell’Atlantico.
Sulle due sponde
Sul primo punto, emergono contraddizioni interne a ciascuno dei due modelli non di poco conto. Negli Stati Uniti, quanto fatto dalle piattaforme – la restrizione della libertà di espressione di un utente, sia pure il presidente uscente – è dal punto di vista tecnico perfettamente conforme alla Costituzione: solo il potere statale (e non i poteri privati) è obbligato a rispettare i vincoli dettati dalla natura quasi sacrale del Primo Emendamento. C’è però una latente schizofrenia nella giurisprudenza della Corte suprema. Da una parte, infatti, questa continua a escludere che le grandi piattaforme digitali possano considerarsi equivalenti ad attori statali, pur se di fatto esercitano sempre più una funzione para-costituzionale, e il caso Trump ne è una plastica rappresentazione. Dall’altra parte, la stessa Corte ha pochi dubbi nel ritenere sia che i social network siano la sede privilegiata per il libero scambio delle idee (un public forum in cui sono consentite limitatissime restrizioni della libertà di espressione), sia che l’account Twitter di Trump costituisca, nel suo “piccolo”, uno spazio virtuale in cui ha luogo il dibattito pubblico. Si ha dunque una contraddizione tra il ruolo attribuito ai soggetti in gioco, che rimarrebbero liberi di disciplinare il rapporto con gli utenti esclusivamente a norma dei loro standard contrattuali, e lo spazio rilevante che tali soggetti di fatto gestiscono, che avrebbe quasi lo status assimilabile a quello di una “agorà digitale”.
Le contraddizioni europee
Al cortocircuito americano ne corrisponde però un altro tutto europeo. Il Vecchio Continente scommette sulla regolamentazione delle piattaforme e non sulla fiducia cieca nella loro capacità di autoregolamentarsi e la proposta di dicembre della Commissione europea, meglio nota come Digital Service Act, va proprio in questa direzione. Tutto vero. Ma se ci chiedessimo cosa sarebbe successo se un Trump europeo fosse stato silenziato dai social network, bisognerebbe rispondere che poco e niente nella sostanza sarebbe cambiato se si guarda a quanto previsto proprio dal Digital Service Act, eccetto la possibilità di una interlocuzione più serrata tra piattaforma e utente.
Se invece si guarda alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e alla possibilità che i diritti ivi protetti, a iniziare dalla libertà di espressione, siano esercitabili orizzontalmente nei confronti dei (poteri digitali) privati, cosa inconcepibile negli Stati Uniti, si potrebbe prospettare una conclusione diversa, nella quale le piattaforme digitali non possono ridurre al silenzio l’eventuale Trump europeo (ce ne sono almeno un paio). Quindi, la carta vincente rimane sempre quella dell’applicazione delle vecchie Carte dei diritti in Europa e non invece una fede cieca in un “nuovismo” digitale che porta a una ingiustificata esaltazione per l’ultima normativa rilevante, destinata a diventare presto obsoleta.
Alla ricerca di un terreno comune
Alla luce delle asimmetrie transatlantiche in termini di valori guida e normative di dettaglio, c’è un linguaggio comune che possa essere proposto per affrontare in modo, se non unitario, almeno meno divergente la sfida che pone il ground zero della regolamentazione digitale?
Forse sì. Ma tale linguaggio non va cercato in valori costituzionali (che divergono) bensì in meccanismi procedurali (che possono unire). È infatti proprio la procedura, al di là della retorica dei diritti fondamentali, la parola chiave della nuova stagione del costituzionalismo digitale. Si fa in particolare riferimento agli obblighi di trasparenza algoritmica per le piattaforme digitali e al data due process che comporterebbe il rafforzamento delle tutele degli utenti nel loro rapporto con le piattaforme. Se il costituzionalismo analogico è quello dei diritti sostanziali, quello digitale si fonda invece sulla dimensione procedurale.
Due direzioni
Tutto ciò si concretizza in un due indicazioni. La prima è che la libertà (e il diritto) delle piattaforme a rimuovere quanto considerano non consono ai propri standard contrattuali deve accompagnarsi alla conseguente loro accettazione di una maggiore responsabilizzazione, prima di tutto sul piano delle procedure, di chi non si limita più a ospitare contenuti, ma assume decisioni para-editoriali sulla loro permanenza in rete.
La seconda indicazione è relativa all’ormai non più procrastinabile intervento del decisore politico. La stagione del liberismo tecnologico, in cui vi è stata una delega in bianco alle piattaforme che, di fatto, si sono fatte arbitri (svolgendo un ruolo, anche scomodo, di digital utilities) del bilanciamento tra diritti fondamentali, ha prodotto le storture che sono plasticamente rappresentate dalle vicende di questi giorni. Dopo il ground zero, deve aprirsi una stagione nuova, se non di umanesimo, quanto meno di un capitalismo digitale “mite” in cui i poteri pubblici siano in grado di portare avanti una visione non privatistica e tanto meno non proprietaria dello spazio digitale. Uno spazio che – lo si voglia o no – è ormai il luogo privilegiato di quel (non esattamente libero) mercato delle idee.