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La diffusione del Covid-19, specie nelle regioni più industrializzate e popolate del Paese, ha messo in evidenza l’assoluto ritardo e l’urgente bisogno di innovazione digitale del sistema sanitario e, più in generale, della tecnologia disponibile a fronteggiare l’emergenza. Appare impressionante e impietoso il paragone in termini di approccio e di apporto tecnologico con altre realtà che, sappiamo bene, muovere da culture profondamente diverse, da stili di vita non semplicemente improntati a un minor individualismo, ma anche segnati da ordinamenti non propriamente democratici.
In Cina, come a Singapore o nella Corea del Sud, robot, tecnologie 3D, big data e droni sono stati gli strumenti più utilizzati per arginare il contagio da Covid-19: negli ospedali di Wuhan sono state utilizzate braccia artificiali, in grado di effettuare attività generalmente svolte dai medici per evitare contagi tra pazienti e personale sanitario; si è sperimentato l’utilizzo un braccio robotico mobile, in grado di eseguire esami ad ultrasuoni, prelevare tamponi orali, autodisinfettarsi dopo ogni contatto con il paziente.
Nelle prime settimane di febbraio, la Cina ha utilizzato oltre venti nuove applicazioni, basate su block chain, tracciando e proteggendo informazioni sulla produzione-distribuzione dei dispositivi di protezione individuale, dei farmaci, dei respiratori, strutturando una rete che ha connesso ospedali, territorio, pazienti; un uso massiccio di droni e robot antropomorfi ha consentito un estensione e una copertura delle attività di sanificazione in aree e superfici altrimenti non raggiungibili.
In Italia siamo alla trasformazione di un’ordinaria maschera da snorkeling, venduta da Decathlon, in un respiratore di urgenza. In questa cornice, abbiamo tentato di praticare una contrattazione che avesse al centro la sicurezza e la salute dei lavoratori metalmeccanici, il rispetto e l’applicazione di protocolli faticosamente costruiti nel rapporto con il governo e le associazioni d’impresa, dopo una fase che ci ha visti obbligati anche al conflitto. E non c’è dubbio che nel momento più acuto dell’emergenza, nelle produzioni essenziali, di cui è stata garantita la continuità, le imprese abbiano potuto contare sulle nostre Rsu e sui nostri Rls, trovando in loro interlocutori preparati, disponibili, riconosciuti.
In gran parte delle imprese metalmeccaniche, anche laddove abbiamo incontrato la disponibilità che avremmo immaginato più attenta e diffusa, gli accordi che abbiamo definito, risentono di un approccio e di una disponibilità tecnologica decisamente bassa. Intendo dire che, se si escludono le eccezioni nei grandi gruppi (che, tra l’altro, non sempre sono frutto di accordi, ma di pratiche aziendali), nelle produzioni del lusso (Ferrari, Lamborghini), che magari si sono rivolti anche a virologi di grido e che avevano già una dotazione digitale di base, gli obiettivi-obblighi minimi di misurazione della temperatura corporea, piuttosto che di distanziamento fisico, di sanificazione delle superfici, piuttosto che di organizzazione del lavoro e delle postazioni di lavoro, hanno seguito una traiettoria ‘tradizionale’.
Pochi termo scanner, pochi distanziatori sonori, poca connessione, tanto lavoro agile, cottimo digitale spacciato per smart working. E stiamo appunto parlando di esperienze avanzate, di eccezioni, ma i metalmeccanici non lavorano solo in Ferrari, in Lamborghini o nelle imprese della Ict (ad esempio, i metalmeccanici delle imprese impegnate nella manutenzione degli impianti degli ospedali, piuttosto che nelle Rsa o nelle altre strutture di ricovero, essenziali com’è stato essenziale tutto il personale socio-sanitario, hanno dovuto spesso misurarsi con una indisponibilità dei più elementari dispositivi di protezione individuale, che solo gli accordi collettivi hanno consentito di colmare).
Sicché, l’impianto della nostra contrattazione ha seguito uno schema per tanti versi obbligato: volendo dare per scontata, ma abbiamo visto che così non è stato, la dotazione di dispositivi di protezione individuale (dpi), gli accordi si sono concentrati sulla riorganizzazione dei tempi (ingressi, turnazioni, uscite) e dei relativi spazi (accessi, varchi e uscite dedicate), sulla sanificazione degli spazi comuni, sulla ventilazione e, in alcuni casi, la purificazione dell’aria nelle postazioni di lavoro più critiche.
Nonostante ciò, non sono mancate esperienze interessanti e anche innovative (Tasi), dove il rallentamento produttivo e le esigenze organizzative connesse al Covid-19, così come le riduzioni di orario, relative alle turnistiche conseguenti, sono coperte e compensate da un fondo solidale (Fsi), alimentato da parte dell’azienda, di una giornata per ogni dipendente del gruppo Leonardo, comprese le controllate, dal versamento di ferie da parte dei dirigenti e da giornate o frazioni di quattro ore da parte dei lavoratori, su base volontaria. All’utilizzo del fondo sono ammessi prioritariamente i lavoratori ‘fragili’ per attività che non siano ‘remotizzabili’. Appare, per ragioni diverse, interessante anche l’accordo di qualche giorno fa con Fca per l’utilizzo di una app (su base volontaria, nel rispetto della privacy e della legge 300), sulla quale possono essere trasferite informazioni in tempo reale ai lavoratori su parametri relativi all’ambiente di lavoro (a partire dal distanziamento fisico) e connettersi con l’esecuzione di un’analisi (Rt-Pcr messa a punto da Sersys-Ambiente) per la ricerca del virus sulle diverse superfici e sui diversi impianti di trattamento e diffusione dell’aria.
Abbiamo proprio bisogno d’imparare da questa emergenza e dalla necessità di convivere a lungo con i suoi effetti: dovremmo decisamente ‘approfittare’ dell’uscita dalla fase più acuta dell’emergenza per stabilizzare e consolidare qualche elemento acquisito nella contrattazione. Per esempio, verificare che tutte le imprese adeguino il documento di valutazione dei rischi (dvr) e i protocolli e le procedure negoziate non vengano considerate ‘altro’ dagli obblighi previsti dal dlgs 81/2008; soprattutto dovremmo poter investire su una ‘nuova normalità’, dove l’approccio e l’apporto delle tecnologie digitali sia componente strutturale della progettazione condivisa di un’organizzazione del lavoro pronta a rispondere anche nelle emergenze, e non viceversa.
Gianni Venturi è segretario nazionale Fiom Cgil