Dicono che c’è un tempo per seminare
e uno più lungo per aspettare
io dico che c’era un tempo sognato
che bisognava sognare.

Ivano Fossati C’è tempo

 

Abbiamo immaginato di costruire collettivamente questo manuale perché abbiamo la consapevolezza che stiamo attraversando un tempo di confine, di passaggio, di trasformazione. Abbiamo coscienza cioè che questo tempo è caratterizzato da emergenze ed eventi ipercomplessi che hanno la forza di modificare le condizioni di partenza del nostro modo di vivere, di scegliere, di produrre e quindi di lavorare. Inoltre si tratta di sfide inedite sia per la loro complessità, ma soprattutto per la loro coincidenza temporale. Non abbiamo la supponenza di definire tutte le soluzioni, ma la capacità di impostare un cammino, di trovare una bussola che possa orientarci in un oceano per certi versi sconosciuto.

La pandemia da Covid-19 ha rappresentato un’emergenza globale economica, sociale e ovviamente sanitaria e uno straordinario campanello di allarme: la risposta di fronte a eventi di questa natura è stata fragile. Ma nel guardare il decennio che verrà la lezione appresa durante il Covid non possiamo dimenticarla, occorre agirla come vertenza permanente: il ruolo delle politiche pubbliche nella gestione economica dello Stato, detto in altri termini il ruolo dello Stato come unico soggetto istituzionale capace di rispondere alla complessità, sia dal punto di vista sanitario che economico e sociale. Negli ultimi vent’anni abbiamo lasciato guidare le politiche economiche del Paese al mercato, anche quando si trattava di rispondere ai diritti fondamentali, quei diritti di cittadinanza che costituiscono il collante della comunità e della coesione sociale e ancora di più quando si è trattato di definire le scelte industriali del Paese. La critica radicale a questo modello di crescita parte dalla consapevolezza che è un modello non adeguato, unfit si direbbe.

Questo vale per il nostro Paese e vale ancora di più nella dimensione europea. La svolta verde del Green deal, i forti investimenti digit e green del programma Next generation Eu quale risposta alla crisi pandemica hanno rappresentato una prima inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche di austerity e neoliberiste post 2008. Purtroppo la guerra in Ucraina e gli effetti di processi di riorganizzazione globale dei poteri economici, soprattutto in una fase in cui si fronteggiano l’Est e l’Ovest a colpi di politiche neoprotezionistiche, hanno fatto perdere slancio a questo cambio di marcia. Credo che sarebbe sbagliato che l’Europa rinunciasse a segnare un percorso diverso per raggiungere un nuovo equilibrio sostenibile e un nuovo modello sociale che valorizzi il lavoro, i diritti e il welfare.

Cambiare il modello economico e sociale è importante per governare in modo democratico i due grandi processi su cui concentriamo le nostre valutazioni: la crisi climatica e le politiche per affrontarla e i processi di digitalizzazione.

È indubitabile, con l’eccezione di qualche negazionista non propriamente in buona fede, che il clima non solo sta cambiando, ma che siamo in forte ritardo per evitare l’irreversibilità di questo cambiamento. Il tema della crisi climatica e delle politiche per affrontarla oggi rappresenta per il mondo la sfida più grande. Questo è anche il tempo delle nuove frontiere del digitale e dell’Intelligenza artificiale con la pervasività e la rapidità che caratterizza questi processi.

Si tratta in entrambi i casi di sfide economiche, sociali e democratiche, che chiamano in causa il lavoro e il ruolo del sindacato.

L’idea stessa di sostenibilità infatti sottende a un modello economico radicalmente diverso. Il modello capitalista liberista ha fallito favorendo e determinando l’aumento delle disuguaglianze, comprimendo salari e diritti, riducendo le grandi reti pubbliche di cittadinanza, limitando il ruolo dello Stato ad erogatore di incentivi più che a protagonista delle scelte industriali e di sviluppo, favorendo la finanziarizzazione dell’economia. E soprattutto ha fallito perché incapace di affrontare le grandi emergenze del nostro tempo: la pandemia ne è stato l’esempio. Anche la versione digitale sostanzialmente ripropone le stesse caratteristiche e gli stessi modelli di sfruttamento. Il nuovo capitalismo digitale o della sorveglianza si regge sui profitti enormi generati dalla mole di dati estratti gratuitamente sulla base delle nostre attività sociali quotidiane, su un nuovo spread della conoscenza che, oltre a privatizzarla, la polarizza determinando nuovi modelli di esclusione sociale.

L’evidenza più rilevante della insostenibilità di questo sistema economico è la sproporzione nella distribuzione delle ricchezze: oltre al numero di persone in condizione di povertà assoluta, assistiamo alla continua erosione di salari e redditi e al conseguente impoverimento di chi lavora. Il tema della redistribuzione e di un modello economico e fiscale che sia coerente con questo obiettivo e con la creazione di nuova occupazione diventa quindi strategico. Potremmo dire che Siamo ancora il 99%, richiamando un famoso slogan, se l’1% più ricco detiene più del doppio della ricchezza posseduta da 6,9 miliardi di persone (incrementata durante la fase della pandemia) e se è responsabile del doppio della Co2 emessa attribuibile al 50% più povero.

La sostenibilità sociale ed economica non è compatibile quindi con un modello economico basato sullo sfruttamento dell’uomo o dell’ambiente, semplicemente perché necessita di un punto di vista e priorità radicalmente diversi. È evidente che un assunto di questo tipo necessita di una risposta politica e democratica. Le istituzioni democratiche sono nella condizione di affrontare questo quadro, nella consapevolezza dello straordinario potere finanziario e di orientamento degli attori economici globali o nelle scelte difficili che un cambiamento epocale dello stile di vita determina?

Osserviamo nel nostro Paese un progressivo indebolimento del sistema democratico reso evidente dai recenti dati di partecipazione alle elezioni politiche e dalla prevalenza nel ventennio alle nostre spalle di soluzioni più calibrate sul consenso immediato che con un’idea di sviluppo e di progresso collettivo; la soluzione è più partecipazione e una piena attuazione ed estensione dei sistemi costituzionali e democratici. Il rafforzamento dei valori e dei processi democratici cioè è necessario per le due grandi transizioni in termini di maggiore partecipazione. Faccio due esempi: le comunità energetiche che rappresentano un modello in cui i cittadini sono produttori e consumatori, ma soprattutto parte di una rete o di una comunità e il ruolo dell’utilizzo dei social media, a partire dal video diventato virale di Mahsa Amini, poi uccisa, nelle rivolte contro il regime iraniano. 

Da questo punto di vista è importante il ruolo che le giovani generazioni giocheranno. La giustizia intergenerazionale reclamata nelle tante manifestazioni che hanno caratterizzato gli ultimi anni non è più limitata solo all’ambito ambientale, si è progressivamente saldata con la dimensione sociale e con il terreno dei diritti civili. Questi ragazzi e queste ragazze saranno i futuri lavoratori e lavoratrici, il prossimo gruppo dirigente della nostra organizzazione: dobbiamo continuare, come abbiamo fatto in questi anni, a tenere insieme queste sensibilità e queste rivendicazioni con la politica che concretamente la nostra organizzazione dovrà mettere in campo, evitando le fratture generazionali.

La dimensione contrattuale e negoziale a tutti i livelli, collettiva, aziendale o territoriale per lo sviluppo, sarà ovviamente molto importante per gestire e determinare avanzamenti, nuovi diritti a partire dai nuovi diritti digitali, determinare gli obiettivi di piena e buona occupazione, contrastare i processi di disgregazione, di precarizzazione e di corporativizzazione. L’obiettivo contrattuale del prossimo decennio è, in una parola, la ricomposizione nel segno della sostenibilità, del lavoro, del territorio, del rapporto tra uomo-ambiente-tecnologia, delle comunità. 

Quello che abbiamo di fronte è un lungo processo di trasformazione economica e sociale che necessita della costruzione di alleanze per essere attuato, di profonda unità della nostra organizzazione, di rinnovata confederalità. Sapremo essere all’altezza di questa sfida, se anche noi saremo in grado di uscire dalla nostra comfort zone, se avremo sufficiente umiltà per far prevalere, anche nella dimensione di organizzazione, il noi collettivo, curiosità intellettuale per continuare a ricercare, coraggio e determinazione per continuare a lottare per cambiare la condizione di chi lavora.