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Nel dibattito attuale sul Piano nazionale per la ripresa e resilienza vi è una grande attenzione alle nuove tecnologie e alla sostenibilità ambientale, elementi tra loro fortemente legati. La creazione del Ministero per l’Innovazione tecnologica testimonia bene, in effetti, l’importanza che il governo Draghi attribuisce a questo tema per indirizzare la politica per la ripresa del Paese.
La diffusione delle tecnologie digitali e la politica industriale ad essa sottostante, d’altra parte, non si declina in un contesto “vuoto”, ma riflette le caratteristiche dei processi produttivi e sociali in cui si trovano ad agire. Nel caso dell’Italia questo contesto è fatto da imprese che per la gran parte sono di piccole o piccolissime dimensioni, gestite da imprenditori mediamente più anziani e meno istruiti dei colleghi europei, specializzate in settori a tecnologia matura e con una limitata propensione ad investire nel capitale umano dei propri dipendenti. Ignorare la complessità di questi elementi espone il dibattito sulla politica per l’innovazione a seri limiti di approssimazione, ovvero al rischio di progettare interventi che si riveleranno inefficaci per gli obiettivi che si prefiggono di raggiungere.
Naturalmente si tratta di obiettivi tutti condivisibili: far crescere la produttività, favorire un mercato del lavoro socialmente inclusivo e posizionare il paese sulla parte alta della catena internazionale del valore. Il problema qui è capire quali sono gli strumenti più adatti a perseguirli, dato il profilo competitivo del nostro tessuto imprenditoriale. È utile allora far riferimento ad alcune interessanti evidenze basate dalla recente esperienza del Piano Nazionale Industria 4.0, un Piano che nei suoi tratti essenziali sembra destinato ad essere confermato nel prossimo Pnrr.
Prima cosa. Nel periodo 2015-2017 circa il 26% delle aziende italiane dichiarava di aver investito in almeno una delle nuove tecnologie digitali, di automazione e interconnessione: una percentuale che a prima vista potrebbe anche sembrare significativa, considerando le caratteristiche della nostra economia. Tuttavia se andiamo a scorporare il dato aggregato, si scopre che quella percentuale è assorbita quasi totalmente dagli investimenti in sicurezza informativa (22%), mentre i finanziamenti per le tecnologie digitali di nuova generazione sono tutto sommato marginali. Basta pensare che solo il 3,2% investiva in software e Big Data, il 2,1% in Robotica fino ad arrivare all’1,4% per i dispositivi per la Realtà aumentata.
Secondo. La limitata diffusione e la natura prevalente degli investimenti in nuove tecnologie (sicurezza informatica) contribuisce a spiegare il motivo per cui la transizione verso il nuovo paradigma innovativo non ha esercitato – almeno finora – un forte impulso alla crescita economica e alle prospettive del reddito dei lavoratori nel nostro paese. Tra le (poche) aziende che adottano almeno una tecnologia digitale si assiste infatti ad un incremento della produttività relativamente contenuto (+5%) e comunque superiore - in valore assoluto - a quello registrato per i salari medi (circa +2%). L’adozione delle nuove tecnologie sembra dunque accompagnarsi oltre che ad un atteso incremento della produttività, anche ad una distribuzione della quota di reddito che favorisce relativamente le imprese rispetto ai loro dipendenti, esercitando una pressione verso l’aumento della disuguaglianza.
Terzo. La politica industriale che negli anni recenti si è concentrata per una parte importante su misure di incentivazione fiscale per l’acquisto di nuovi beni strumentali e asset intangibili - anche e non solo nell’ambito del Piano Nazionale Industria 4.0 - si è rivelata relativamente inefficace. Anche in questo caso i dati sembrano parlare chiaro. Circa il 59% delle imprese percettrici di qualche schema di beneficio fiscale per investire dichiara che avrebbero effettuato comunque le medesime scelte anche in assenza di tali vantaggi (iper-ammortamento, super- ammortamento, “Nuova Sabatini”, credito di imposta per spese in R&;D, ecc). Ciò non dovrebbe stupire, se consideriamo che gli incentivi sono stati utilizzati prevalentemente da imprese del Nord e da quelle di grandi dimensioni con alta propensione innovativa, ovvero dal segmento di mercato che tipicamente compete ed effettua le proprie scelte strategiche quasi indipendentemente dalle opzioni di politica economica.
Le evidenze raccontate finora sembrano quindi coerenti nel descrivere un tessuto imprenditoriale che, in media, soffre di alcuni nodi strutturali per quanto riguarda la capacità di cogliere in pieno le opportunità competitive offerte dalle nuove tecnologie. Tali nodi possono essere legati a fattori di tipo demografica, produttiva e “culturale”, come pure ad aspetti di natura istituzionale e macroeconomica. Quali che siano queste limitazioni, appare evidente che esse difficilmente potranno essere rimosse da una strategia di politica industriale basata esclusivamente sulla leva dell’incentivazione fiscale erogata al margine e distribuita con criteri “erga omnes”.
Abbiamo già argomentato in altre sedi che questo tipo di interventi rischia di avere un impatto contenuto e di breve periodo sulle capacità di agevolare il processo di transizione tecnologica (ed ambientale) della nostra economia, ovvero verso un modello di sviluppo sostenibile ed inclusivo. Sembra urgente invece la necessità di destinare le risorse messe a disposizione dal Next Generation Eu verso interventi di tipo selettivo e in una logica strategica di medio-lungo periodo in modo tale da superare - almeno in parte - i limiti di efficacia che gli stimoli fiscali di natura microeconomica hanno dimostrato di incontrare di fronte ad un sistema produttivo così complesso e frammentato come quello italiano.
Analogamente occorre avere una visione capace di disegnare tali interventi in modo siano capaci di intervenire in modo complementare e mutualmente funzionale su varie dimensioni dei cambiamenti produttivi e organizzativi che coinvolgono il sistema delle imprese e del lavoro. A ben vedere, questa è una delle sfide più grandi che si troverà ad affrontare il presidente Draghi.
Andrea Ricci è economista e dirigente di ricerca Inapp
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