PHOTO
La crisi innescata dalla pandemia ha avuto un impatto senza precedenti sull’economia italiana. In assenza del blocco dei licenziamenti imposto dal governo Conte, il tasso di disoccupazione sarebbe cresciuto esponenzialmente con effetti ulteriormente depressivi sulla domanda e sul Pil. La pandemia ha colpito un’economia già fiaccata da malanni strutturali – impoverimento della struttura industriale, crescenti divari territoriali, diffusa precarietà occupazionale e reddituale, diseguaglianze – e dall’eredità lasciata da un susseguirsi di recessioni. Come recentemente sottolineato da Lucchese e Pianta, l’ultima crisi, quella del 2011-2014, ha contribuito a determinare la chiusura di circa 200.000 imprese e la perdita di 800.000 posti di lavoro. Nel 2019, l’economia italiana registrava il 5% di ore lavorate in meno rispetto al 2007 e una contrazione del 20% per quanto riguarda l’indice della produzione industriale.
La crisi pandemica ha operato, in negativo, sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta. La domanda si è contratta per le restrizioni alla mobilità, il diffondersi dell’incertezza, l’interruzione dei rapporti dei lavoro e l’incapacità degli ammortizzatori sociali di raggiungere o di dare adeguato supporto a tutte le categorie colpite (in particolare, autonomi, parasubordinati, lavoratori di piccole imprese escluse dalla ciò ordinaria). Dal lato dell’offerta, l’iniziale interruzione delle attività non essenziali, il permanere in essere delle misure di distanziamento sociale e lo smottamento di rilevanti parti delle catene della produzione, sia a livello nazionale sia a livello internazionale, hanno contribuito a deprimere scambi, investimenti e produzione. Infine, la pandemia ha nuovamente messo in luce lo scarso livello di cooperazione all’interno dell’Unione europea e l’inadeguatezza delle istituzioni che ne governano il funzionamento economico di fronte ad una sfida come quella rappresentata dalla pandemia.
Tuttavia, la pandemia da Sars-Cov-2 ha scosso in modo inaspettato le istituzioni europee per quanto riguarda due temi essenziali: il movimento verso un bilancio comune e la riscoperta della politica industriale. L’adozione del piano ‘Next Generation Eu’ e, più in generale, la decisione di emettere titoli di debito comune per finanziare un piano di ripresa di ampie dimensioni da destinare in misura considerevole ai paesi più colpiti, dunque con un timidissimo accenno alla redistribuzione delle risorse tra aree forti e aree deboli, costituisce un’innovazione senza precedenti in un contesto, quello europeo, dove finanza e austerità fiscale hanno sin qui rappresentato le uniche bussole. Il piano riscopre inoltre l’importanza degli investimenti pubblici in settori strategici per lo sviluppo industriale e tecnologico e, non meno rilevante, per garantire la transizione ecologica. È però necessario non confondere l’inevitabile necessità di far fronte all’emergenza con un’effettiva inversione di tendenza rispetto al paradigma che ha dominato durante gli ultimi trent'anni e che ha visto la privatizzazione dei beni pubblici, la centralizzazione del capitale e della capacità industriale e la ‘periferizzazione’ di intere aree territoriali quali cifre dominanti della dinamica economica europea e italiana.
In Italia, come Luciano Gallino ebbe modo di documentare in modo inequivocabile, l’abbandono delle politiche industriali, l’arretramento dello stato e delle sue imprese dai settori tecnologicamente strategici (i.e. informatica, chimica, farmaceutica, tra gli altri), la privatizzazione di monopoli naturali e utilities ha contribuito in modo determinante all’indebolimento della struttura produttiva ed al depauperamento delle competenze nel mercato del lavoro. Durante la pandemia ciò si è mostrato in modo manifesto con la necessità di importare dall’estero la gran parte dei beni, sia a medio-bassa sia ad alta tecnologia, necessari per contrastare il diffondersi del virus. A partire dai vaccini rispetto ai quali ora, dopo che le multinazionali farmaceutiche hanno operato un mastodontico drenaggio di risorse pubbliche mantenendo ben saldi nelle loro mani i brevetti dei vaccini già diffusi o in via di diffusione, le istituzioni comunitarie e nazionali tentano di recuperare terreno acquisendo licenze così da accrescere la produzione.
Nell’ambito del piano di Ripresa e resilienza disegnato dal governo Conte e attualmente in via di rivisitazione da parte dell’esecutivo Draghi, la politica industriale è rinvenibile (non è dunque possibile effettuare un’analisi compiuta dei contenuti né tantomeno stimarne gli impatti) nella quota rilevante di risorse da allocare ai domini della digitalizzazione e della sostenibilità ambientale. Le aree di intervento principali riguardano il contributo italiano alla realizzazione di un cloud europeo – nell’ambito del progetto Gaia X – teso alla realizzazione di una infrastruttura sicura per l’archiviazione, la gestione e la trasmissione delle informazioni digitali. In parallelo, sono previsti investimenti per un più generale potenziamento delle infrastrutture materiali e immateriali con l’obiettivo di potenziare la connettività avendo come obiettivo specifico quello dello sviluppo delle aree a maggiore fragilità economica e sociale, a partire dal Mezzogiorno. In linea con le politiche di incentivazione orizzontale poste in essere sin dai vari ‘piani Calenda’, concepiti per stimolare l’adozione di tecnologie 4.0 da parte delle imprese, si prevede di garantire supporto a queste ultime mediante incentivi e strumenti utili a ridurre i costi connessi con l’introduzione di nuove tecnologie, in particolare digitali. Ciò dovrebbe associarsi alla definizione di politiche volte al potenziamento della formazione, sia all’interno sia fuori dalle imprese, così da garantire la disponibilità delle competenze utili allo sviluppo e allo sfruttamento delle già citate tecnologie. Sul fronte dei beni pubblici l’obiettivo principale è quello di potenziare e ammodernare, anche attraverso l’accelerazione del processo di digitalizzazione dei servizi, l’offerta di servizi sanitari pubblici favorendo la dimensione territoriale ridisegnando un sistema ospedale-centrico che, peraltro, ha affrontato la pandemia fiaccato da un decennio di tagli e ridimensionamenti dell’organico. Seguendo le indicazioni provenienti dalla Commissione una componente di rilievo dei progetti è altresì destinata alla sostenibilità ambientale, alla promozione dell’innovazione di processo finalizzata alla riduzione dell’impatto ambientale delle produzioni industriali e all’economia circolare con interventi specifici volti a potenziare la filiera del riciclo.
Sebbene il Ngeu e il piano nazionale che definisce le aree di intervento e le strategie per l’impiego delle risorse comunitarie costituiscano degli interessanti elementi di discontinuità rispetto all’ortodossia che fino a oggi ha dominato sia a livello europeo sia a livello italiano, vi sono elementi di significativa criticità che è importante sottolineare. In primo luogo, i vincoli alla spesa e l’idea che lo Stato debba svolgere una funzione di esclusivo supporto (se non esclusivamente di passiva regolamentazione e incentivazione delle attività private) al mercato sembrano essere dogmi che la pandemia non è stata in grado di scalfire. Certo, le regole fiscali sono attualmente sospese e la Bce tiene di fatto sotto controllo l’andamento dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico dell’Unione. Ma la lettera dei Trattati e le dichiarazioni dei responsabili della politica economica europea non fanno ben sperare per quanto riguarda il rischio di un ritorno alla ‘normalità’ pre-Covid. Inoltre, al di là della retorica, non sembra essere realmente all’orizzonte la riscoperta di una politica industriale verticale e selettiva mediante la quale restituire sovranità economica e tecnologica all’Europa e ai suoi stati membri. Come ben illustrato da Lucchese e Pianta, nel caso italiano sarebbe necessario un nuovo assetto istituzionale. Ciò di cui ci sarebbe bisogno è un piano che veda, in primo luogo, lo Stato protagonista di un vasto piano di investimenti finalizzati a rinnovare le infrastrutture materiali, tecnologiche e sociali del paese. Le risorse potrebbero essere in parte quelle del Ngeu, risorse senz’altro non sufficienti per le sfide che l’economia italiana ha di fronte. A fianco a queste, lo Stato dovrebbe inevitabilmente pianificare un piano di emissioni di debito ben finalizzato con la garanzia che la Bce continui con l’imprescindibile opera di finanziamento dei debiti nazionali. In secondo luogo, sarebbe essenziale costruire soluzioni finanziarie e organizzative per dare coerenza alle strategie delle imprese pubbliche operanti nel paese con l'auspicio che soggetti pubblici di nuova costituzione, ad esempio ambito sanitario e farmaceutico, affianchino quelli già esistenti. In terzo luogo, a partire dal riconoscimento dell’incapacità del sistema bancario privato di garantire un’allocazione del capitale utile allo sviluppo industriale, tecnologico e sociale del paese sarebbe centrale la costituzione di una grande Banca pubblica d’investimento in grado di risollevare le imprese abbandonate al declino dai privati e di lanciare nuove iniziative economiche con particolare attenzione alla riduzione dei divari territoriali.
Dario Guarascio, dipartimento di Economia e Diritto, Università la Sapienza di Roma