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L’avvio della attività di questo Forum è nello stesso tempo un punto di arrivo e un punto di partenza.
Un punto di arrivo, che assume come postura politica della Cgil il contrasto esplicito del diffuso e persistente pregiudizio positivo che accompagna i processi di trasformazione digitale. La “digitalizzazione” del lavoro, dei servizi pubblici, delle relazioni sociali, dei processi di conoscenza non è un processo positivo “di per sé”, ma richiede una esplicita valutazione critica delle possibili conseguenze sociali, lavorative, economiche e politiche. Questa valutazione critica è compito degli attori sociali coinvolti, a partire dalle organizzazioni sindacali. Ma è anche un punto di partenza, che per essere tale deve essere capace di affrontare due questioni intrinsecamente e politicamente complementari.
La prima è la sproporzione tra la capacità di individuare criticità e pericoli della trasformazione digitale e la possibilità di porvi rimedio. Sproporzione che è il riflesso inevitabile della enorme disparità di potere tra i padroni attuali della trasformazione digitale e gli interessi di chi ne subisce le conseguenze, consapevolmente o inconsapevolmente.
La seconda questione è la difficoltà di immaginare, progettare, sperimentare e realizzare utilizzi della trasformazione digitale funzionali agli obiettivi di difesa del lavoro e di giustizia sociale ed ambientale, che costituiscono la ragion d’essere della Cgil. Le due necessità, quella del contrasto e quella della progettazione/realizzazione, sono reciprocamente interdipendenti.
Non ci può essere un utilizzo socialmente utile della potenza del digitale senza avere effettiva forza di contrasto dei suoi utilizzi oggi prevalenti, così come non si può esercitare una efficace azione di contrasto senza essere in grado, o almeno indicare la possibilità, di progettare e realizzare ‘altro’. Dunque la questione è: come riuscire a intervenire efficacemente su questa interdipendenza? Che è un altro modo per chiedersi: come riuscire a riorientare la trasformazione digitale? E come riuscire a farlo oggi, dopo che in questi ultimi anni si è forse un poco attenuata la fascinazione futurista di massa e si sono moltiplicate, persino tra i non specialisti, le voci critiche sulla traiettoria della trasformazione digitale?
Abbiamo verificato che una capacità effettiva di riorientamento non può avvenire dall’alto, da think tank illuminati, da centri di ricerca più socialmente consapevoli, meno che mai dalle organizzazioni politiche che frequentiamo, che ancora hanno difficoltà a considerare la trasformazione digitale come una questione ‘politica’. Non può avvenire neanche da fuori, da una regolamentazione nazionale ed europea, già effettiva o in corso di attuazione, che è una condizione necessaria per mitigare almeno parzialmente la sproporzione delle forze in campo ma non è sufficiente, non solo per evidenti problemi di effettiva attuazione (ad esempio capacità di controllo e poteri di sanzione). Occorre che a entrare in gioco siano gli attori sociali coinvolti.
Ciò che serve, e ciò che oggi manca, è un effettivo, ampio e consapevole coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, di chi lavora con e per le tecnologie digitali; di chi, anche non direttamente coinvolto, ne subisce le conseguenze (ad esempio gli utenti di servizi pubblici erogati mediante l’uso di sistemi di intelligenza artificiale). In questo senso qualcosa inizia a emergere oggi sotto forma di possibili “class action”, di cui si cominciano a vedere esempi capaci di contrastare alcune conseguenze negative che abbiano colpito insiemi significativi di lavoratori. Il problema però è che, in questo caso, si tratta di un intervento successivo alla realizzazione del sistema digitale e al suo utilizzo.
Sarebbe invece necessario riuscire a fare intervenire gli attori sociali coinvolti già prima della progettazione del sistema, in fase di definizione iniziale delle finalità, degli obiettivi, delle tecnologie da utilizzare e/o da produrre e, successivamente, in tutta la fase di progettazione e realizzazione. Non si tratta di una generica “partecipazione degli utenti” alla progettazione, ma della possibilità di trasferire potere agli utilizzatori durante il tutto il processo di produzione dell’innovazione digitale intesa come sistema socio-tecnico (tecnologico, organizzativo e sociale), con l’obiettivo di rendere “contendibile” a favore degli utilizzatori l’intero processo. La partecipazione degli attori sociali è il principale snodo che rende complementari il fronte del contrasto e quello della progettazione/realizzazione. È prevedibile che un coinvolgimento molto più largo di quello attuale avverrà dapprima sotto forma di rifiuto dei danni prodotti dalla trasformazione. Ma proprio i “quadri” che emergono nelle fiammate di rifiuto, possono e devono diventare protagonisti della contro-progettazione.
Quali caratteristiche deve avere questo processo produttivo per essere effettivamente “contendibile”?, quali metodi e strumenti devono essere utilizzati? come può essere organizzata l’espressione di auspicabili conflitti rispetto alle caratteristiche indesiderate della trasformazione digitale? Questo è il piano di ricerca e di intervento che proponiamo come attività per questo Forum. Un possibile riferimento per iniziare a percorrere questo campo di ricerca è quello della scuola scandinava, che negli anni 70 del secolo scorso ha studiato e praticato metodi e strumenti di “progettazione partecipata” dei sistemi informativi. Come possono essere reinterpretati i metodi e gli strumenti di allora rispetto ai sistemi digitali di oggi? Gli stessi tentativi di regolamentazione nazionale ed europea possono essere riorientati in questa luce: non solo regolamentare rispetto alle caratteristiche finali dei sistemi, ma regolare il processo di produzione per rendere possibile partecipazione e potere di intervento per gli utilizzatori.
Un esempio possibile per mostrare la differenza tra la redistribuzione di potere auspicata, e l’attenzione alla “user experience” che è parte così significativa della attuale progettazione di applicazioni digitali, può essere il seguente: l’attenzione alla user experience è volta a rendere l’interazione con i sistemi digitali sempre più facile e seducente, mentre la possibilità di intervenire degli attori sociali può al contrario portare alla introduzione di “difficoltà” d’uso (gli “attriti”),diminuinuendo gli effetti negativi dell’uso dei dispositivi.
È evidente che l’obiettivo che abbiamo delineato, quello di una contro-progettazione partecipata che sia in grado di rendere ‘contendibile’ il processo di ogni trasformazione digitale, può definire i suoi strumenti, le sue regole e le sue pratiche solo confrontandosi con sperimentazioni sul campo, dove effettivo sia il coinvolgimento del sindacato e il confronto/conflitto tra opzioni e interessi diversi. A titolo di esempio di possibili sperimentazioni riprendiamo alcune delle idee emerse in alcuni interventi nello stesso dibattito di questa giornata.
Il lavoro da remoto, che, come ha ricordato Carmelo Caravella, è la forma tendenziale che unifica sia il lavoro autonomo che il lavoro dipendente, per il quale sono necessarie nuove tutele e d è possibile individuare processi di socializzazione capaci di contrastare una crescente individualizzazione.
Gli infortuni sul lavoro, per contrastare i quali lo strumento di prevenzione principale non è solo l’aumento dei controllori, delle norme, delle penalità, ma l’utilizzo di modelli predittivi che possano accedere a tutte le risorse informative. Se gli algoritmi che hanno come obiettivo l’estrazione di valore per i monopolisti digitali si basano su dati e potenza di calcolo mille volte superiori a quelli che proteggono le vite e i corpi delle persone, il risultato è la macelleria a cui assistiamo.
Il monitoraggio del territorio, che, come ha proposto Piero De Chiara, può essere effettuato utilizzando i dati prodotti dai miliardi di sensori che si stanno dislocando tra la terra e il cielo. I territori sono, per antonomasia, il modello delle correlazioni e delle retroazioni tra i movimenti idrici, geologici, delle piante, degli animali e delle persone. Usare i sensori solo per fini di produttivi o per la sicurezza è non solo sbagliato, ma soprattutto è uno spreco imperdonabile.
Giulio De Petra, esperto di innovazione digitale, direttore del Crs