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La Pandemia in atto ha accelerato la consapevolezza sociale della strategicità dell’utilizzo delle tecnologie legate alla rete. Il recente lockdown, con un diffuso ricorso allo smart work e alla didattica a distanza, hanno esplicitato in modo esponenziale quello che da tempo è un grave problema per il nostro Paese: garantire il diritto alla connessione, superare le criticità esistenti, potenziare gli investimenti per potere mettere tutti in grado di accedere alla rete.
Esistono, infatti, ancora vere e proprie zone d’ombra che sono parte di quello che è diventata una emergenza sociale nazionale: il digital divide che si consuma non solo a livello territoriale, ma tra generazioni e all’interno delle stesse a seconda la condizione reddituale.
La discussione pubblica si è focalizzata a parlare in modo generico di accesso ponendo l’accento essenzialmente alla qualità della connessione, se è adeguata, veloce, stabile (non a caso si parla di digital divide di primo livello, ovvero la mancata copertura di banda larga fissa ad almeno 2 Megabit e di digital divide di secondo livello, vale a dire la mancata copertura banda ultralarga, sempre più necessaria per una connessione “adeguata” ai servizi internet).
Al contrario quando si fa riferimento al mancato accesso è necessario avere presente che non sempre questo è determinato da carenze della rete, ma soprattutto da motivazioni di carattere economico, da disagio sociale, da fattori culturali. In realtà, in una società sempre più improntata al digitale, è evidente come scegliere di non usufruire di internet sia una “non scelta”. Ossia una scelta dettata da condizioni oggettive determinate da deficit socio-culturali e formativi.
Le ultime rilevazioni Agcom rivelano un quadro sconfortante: circa il 5,6 per cento della popolazione non ha copertura Adsl.
Situazione che peggiora notevolmente guardando ai dati della copertura della banda ultralarga: una vasta percentuale, calcolata tra il 20% e il 40% della popolazione ne è sprovvista.
Quanto alla scelta di non avere una connessione internet, gli utenti di Internet sono il 69 per cento della popolazione, la media europea è dell’81% (in Danimarca si raggiunge il 95%). Si segnala anche un dato bassissimo in Italia di abbonati alla banda larga fissa (22%), che si potrebbe leggere come l’esistenza di un digital divide di secondo livello anche per quello “volontario”:se il primo è rappresentato dalla scelta di non avere una connessione, il secondo è la scelta di non navigare in modo completo ed evoluto, rinunciando a prestazioni di alto livello.
Qualunque siano le ragioni e le forme di esclusione dal digitale, dai suoi benefici e dal processo tecnologico rimane il fatto che una società moderna e democratica non può non fare i conti con l’impatto negativo di tale divario ed intervenire per colmarne gli effetti negativi.
Chi è escluso dal digitale non ne perde solamente i vantaggi in termini immediati, ma ne inibisce le opportunità future. È fortemente penalizzato, se non del tutto escluso, dall’acquisizione di quelle competenze digitali sempre più indispensabili all’esercizio delle professioni, a trovare un lavoro o è destinato ad un lavoro di bassa qualità.
Chi subisce gli effetti del digital divide in grande parte appartiene a ceti sociali già svantaggiati alimentando un circolo vizioso fatto di povertà ed esclusione, da cui deriva una grave discriminazione per l’uguaglianza dei diritti esercitabili online. Il divario digitale quindi è sempre più causa di un divario di altra natura socio-economica e culturale.
Una tesi già ampiamente diffusa dalla metà degli anni Novanta, quando si è iniziato a riflettere su come il mancato utilizzo di internet potesse dare luogo a una nuova forma di disuguaglianza sociale che si manifesta nel gap esistente fra gli information haves e gli havenots. Di lì la riflessione sulla necessità di specifiche politiche pubbliche volte a garantire effettive condizioni di accesso a Internet.
Anche perché la possibilità di accesso al digitale è divenuta oggi una questione che investe anche le fondamenta stesse della democrazia e della libertà: si è molto discusso di come la rete possa creare le condizioni di partecipazione attiva alla vita politica e sociale in base all’uso o meno efficace e consapevole delle nuove tecnologie (Rodotà, Tecnopolitica). Esserne tagliati fuori potrà avere sempre più quindi ripercussioni dal punto di vista della condivisione e della partecipazione alla vita democratica del Paese.
Non a caso, il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite, con l’approvazione della risoluzione A/HCR/20/L.13, ha considerato espressamente Internet alla stregua di un diritto fondamentale dell’uomo, ricompreso nell’art. 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nel documento si attribuisce alla Rete “una forza nell’accelerazione del progresso verso lo sviluppo nelle sue varie forme” e si chiede a tutti gli Stati “di promuovere e facilitare l’accesso a Internet”.
In tale prospettiva, la rilevanza riconosciuta ai temi dell’accesso e dell’uguaglianza digitale sottolineano la necessità di formalizzare il riconoscimento del diritto di accesso a internet nell’ambito dei valori universali e inderogabili di un ordinamento giuridico evoluto e moderno inserendo in Costituzione il diritto all’accesso tra i diritti sociali inderogabili e garantiti universalmente.
Bisogna sottolineare che la previsione in Costituzione non basta se a ciò non si accompagna una serie di interventi pubblici nei diversi campi per rendere effettiva l’esigibilità di tale diritto a partire da una rivisitazione dello stesso concetto di diritto universale che in questa materia passa anche attraverso un diretto intervento dello Stato per assicurare a tutti la concreta connessione alla banda larga.
Presidente Federconsumatori