Viviamo in un paese smarrito che assiste attonito al reality del Cavaliere e del Governo senza trovare le parole. Il vero vuoto non sono le manifestazioni di oggi o domani. È il vuoto del pensiero, della parola, dello scatto morale che diventa significato. Il Paese si perde nelle grandi e piccole cose. Succede anche a scuola.
Lo smarrimento produce bizzarrie impensabili. Tra queste, il ritorno al grembiule nella scuola elementare. Curioso che proprio a quarant’anni dal ’68 si torni a parlare di grembiule a scuola. Ma più sorprendenti sono state le reazioni di pedagogisti e studiosi di sinistra che in buona parte hanno espresso un liberatorio consenso. Sì, basta con questa competizione folle di griffe che inizia già alla scuola materna. Il grembiule ci restituirà l’eguaglianza tra le classi. E ripenso a Celestin Freinet o a Bruno Ciari che il grembiule lo vedevano come la tuta da lavoro dei piccoli. Perché per loro a scuola si lavora con la mente e con il corpo e la libertà di sporcarsi richiede una tuta che lasci liberi di fare e operare. Sembra passato un secolo. Ora il grembiule serve a coprire le griffe, a nascondere gli equivoci e gli errori dei modelli educativi degli adulti che è più comodo non rimettere in discussione. La famiglia, si sa, nel nostro paese è sacra. E così il grembiule ci aiuterà a nascondere le responsabilità eluse. Un paese esperto nel mettere la polvere sotto il tappeto. Come fa il Cavaliere, a tutto campo.
A seguire il voto in condotta. Cari studenti prepotenti, siete avvisati: per voi ci sarà il cinque in condotta e si ripete l’anno. Il voto farà media, tuona il decreto del Ministro. I sondaggi di consenso volano e anche in questo caso, un coro di consensi anche a sinistra. C’è anche qualche distinguo, “perplessità”, ma pure in questo caso mancano la parole. Quelle giuste le trova Daniel Pennac, autore di un Diario di scuola che andrebbe letto in ogni collegio docente. Questa del voto in condotta, dice Pennac , “è un’invenzione di vecchi babbioni che non hanno capito che l’autorevolezza o la scuola e il docente ce l’hanno, oppure il voto non servirà a nulla”. Parole di chi è stato a scuola e la ricorda bene. Perché il docente che testimonia con il suo fare rigore e rispetto per lo studente è infine il più amato. Non ha bisogno di note e di voto perchè gli studenti gli riconoscono quello a cui aspirano e lo ricambiano con una convinzione. L’altra ragione dirimente appartiene a quella cultura della valutazione che il ministro ignora. Puoi usare i voti, i giudizi, le formule ( sufficiente, buono, ecc), non è rilevante. Sono tutti codici simbolici: quel che conta è la cultura della valutazione che è alle spalle. Una cultura in cui la valutazione dell’apprendimento (che tristezza leggere su un decreto l’espressione “valutazione del rendimento scolastico”) è un processo che non riguarda solo lo studente ma il modo di fare scuola, di organizzare la scuola, di qualità di metodi e strumenti.
Quanto ai bulli, quelli che la norma vorrebbe colpire, non c’è scampo. Leggete qualsiasi studio in proposito e troverete un consenso senza eccezioni su un punto: non c’è nulla di più errato con i bulli che riconoscere loro il ruolo in cui vogliono confinarsi. Cinque in condotta? Rischio bocciatura? Immaginate quanto tremerà il bullo, rinforzato nel suo ruolo da queste quisquilie. Eppure anche in questo caso il consenso c’è. I docenti, infatti, non sono tutti “autorevoli”. Gli anni e la fatica talvolta spengono energie e voglia di ricercare incessantemente. E allora anche i voti servono. Ma credo di non sbagliare nel dire che la saggezza dei docenti eviterà disastri. Useranno i voti come una medicina: “attenzione è un farmaco e ogni abuso può produrre gravi conseguenze sulla salute”. E già perché il rischio è proprio qui: che il liberatorio ritorno del voto cancelli la complessità della cultura della valutazione, cresciuta intorno alla metà degli anni 70, operando una brutale semplificazione della valutazione. Questo è il rischio da evitare.
Quanto agli studenti, un indovinello. La protesta contro una misura del tutto ideologica è sacrosanta. Ma come spesso accade l’ideologia, nella pratica, ottiene il risultato opposto. I termini del problema sono semplici: se la scala dei voti in condotta è da 5 a 10, cosa accadrà? A voi, cari studenti, la risposta.
Fin qui le piccole cose. Ma ecco che a settembre il gioco si fa duro. Non stravolgeremo le scuole con altre riforme, aveva detto dialogante il ministro Gelmini, e poi in piena estate ecco i decreti legge che rendono chiara la scelta del Governo. Taglio di 130.000 lavoratori della scuola e drastico ridimensionamento della rete scolastica. Da dove iniziare? Dalla scuola elementare in cui pare che il ministro non abbia proprio capito perché ci siano tre docenti “in una classe” ( testuale, proprio così nei primi interventi). E poi si sa la scuola elementare è una scuola “moderata e operosa” per tradizione. Ci sono le maestre, niente professori e niente studenti.
Le cronache ci raccontano di una protesta che cresce, si diffonde, investe partiti, sindacati, opinione pubblica. Il ministro Gelmini, protetto dalla superivisione del ministro Tremonti e dal presidente del Consiglio, tenta di tranquillizzare. Ma ogni intervento riapre la ferita giacché si intravede, se non un vuoto culturale, un’evidente carenza di informazioni che pure avrebbe dovuto ricevere. E così il ministro utilizza, come se fosse la stessa cosa, l’espressione “maestro unico o prevalente”. Errore. Il maestro unico, tuttologo, è il rappresentante di quella scuola tutta al mattino e “tutta fantasia e intuizione” che la riforma del 1990 aveva archiviato in nome di un modello flessibile di scuola che, con il cosiddetto “modulo”( 3 insegnanti su 2 classi), poteva assicurare una scuola di non meno di 27 ore (fino a 30), arricchita dai nuovi programmi (Dpr104/85).
Oltre al tempo pieno, naturalmente. L’art. 5 della legge 148/90 precisa: “nell’ambito dello stesso modulo organizzativo, gli insegnanti operano collegialmente e sono contitolari della classe o delle classi cui il modulo si riferisce”. E al comma 5 affermava, inoltre, che “nei primi due anni (…) per favorire l’impostazione unitaria e predisciplinare dei programmi, la specifica organizzazione del modulo di cui all’art. 4 è, di norma, tale da consentire una maggiore presenza temporale di un singolo insegnante in ognuna delle classi”. Dunque bisogna essere chiari: il maestro prevalente, benché discutibile e non vincolante, è parte del team dei docenti. Il maestro unico è il ritorno al passato, prima del 1985.
Questa operazione, comunque, non fu un frettoloso tratto di penna. Fu invece un processo culturale e professionale che durò 5 anni prima della legge, investendo tutti i docenti nella sperimentazione e con un piano nazionale di aggiornamento obbligatorio che non troverà esempi negli anni successivi, in nessun altro grado e ordine di scuola. Penso quanto sarebbe stata diversa la scuola media se sui programmi del 1977 si fosse fatto un percorso analogo. Il ministro Gelmini conosce tutto ciò? Ha letto la relazione Fassino ( si tranquillizzi… è solo un caso di omonimia) che spiega le ragioni culturali, pedagogiche e didattiche del superamento del maestro unico? Penso di no, perché nelle sue dichiarazioni non c’è traccia di una riflessione culturale ed educativa.
Ciò che si comprende bene è che esiste invece una ragione di costi, argomento non trascurabile per chiunque responsabilmente voglia una scuola migliore. Ma allora, se è così, dica il ministro i vincoli di compatibilità e avvii il confronto per ricercare le migliori soluzioni. Non venda una ragione economica come ipotesi culturale perché l’esito è pessimo. Per lei e la scuola italiana. E rischia persino di creare paradossi. Dov’è infatti lo spreco se i 3 docenti assicurano da 3 a 6 ore in più nelle due classi? Con il maestro unico torna il vincolo alle 24 ore settimanali. Tutti a casa alle 12,30. Ma è sicuro il ministro che tutti i bambini abbiano un nonno che può andare a scuola a prendere il bambino alle 12.30? Il dubbio deve essersi insinuato se l’onorevole Aprea ha paventato la possibilità di aumentare l’orario di servizio del maestro unico, pagando lo stesso con non precisate risorse aggiuntive di istituto, ovviamente assicurate dal centro. Quindi, per fare una economia, si paventa una spesa aggiuntiva.
Un bel paradosso. Ma è la verità. Del resto 3 maestri su 2 classi vuol dire 1.5 docente a classe (ancor meno se il modulo è 4 docenti su 3 classi). Quel “mezzo” docente in più assicura un servizio fino a 30 ore. Dov’è lo spreco?
Ascolti il Ministro le parole del Presidente Napolitano. Riprenda il “quaderno bianco” ( che non prevedeva il ritorno al maestro unico), apra il confronto con le parti sociali per un serio e condiviso piano di ristrutturazione del sistema. Dia voce a Regioni, Comuni, dirigenti scolastici.
I sindacati tutti, infine, stanno prendendo atto della posta in gioco, ed è molto importante. La politica faccia in fretta a recuperare una lontananza sempre più preoccupante.
* Responsabile Education Fondazione Di Vittorio
Un grembiulino non ci salverà
Curioso che proprio a quarant'anni dal '68 si torni a parlare di grembiule a scuola. Ma più sorprendenti sono state le reazioni di studiosi di sinistra che in buona parte hanno espresso un liberatorio consenso
22 ottobre 2008 • 00:00