L’episodio sa di provocazione. E anche grave. Ma denota il persistere di un grosso ostacolo storico sulla strada della normalizzazione, piena e senza più sospetti, dei rapporti tra Santa Sede e Stato ebraico. Sul sito “Yalla Kadima”, gestito dai sostenitori del partito al governo, appare per qualche ora una foto di Benedetto XVI marchiata con la svastica. A corredo, segue un articolo in cui si affronta di nuovo il caso Pio XII e si chiede alle autorità israeliane di opporsi con fermezza alla richiesta del Vaticano di rimuovere, o modificare, la didascalia che accompagna la foto di Papa Pacelli collocata nel museo Yad Vashem. Pena l’annullamento o il blocco della visita del Pontefice in Israele. Ci sono tutti gli elementi per l’incidente diplomatico in un momento di grande difficoltà politica a Tel Aviv. Il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, che ha fondato il partito Kadima con Ariel Sharon e che si accinge a guidare il nuovo governo, interviene e fa dire al suo portavoce che “quelle non sono le nostre idee”. Passa qualche ora e la foto di Ratzinger con la svastica sparisce dal web, sostituita da un Benedetto sorridente in mezzo alla folla di Piazza San Pietro. Si tratta, in effetti, di una grave offesa, per dire, di immagine: saggio rimuoverla, il contenzioso resta.

Ma che cosa dice la famosa didascalia? Si può così riassumerla: 1°- “La reazione di Pio XII all’uccisione degli ebrei durante l’Olocausto è una questione controversa”. 2° -Da Segretario di Stato “si spese per il Concordato con il regime tedesco, anche se questo significava riconoscere il regime razzista dei nazisti”. 3° -Diventato papa nel 1939, Pacelli “mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore”. 4° -“Anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte o verbali”.5° -“Nel 1942 non si associò alla condanna espressa dagli Alleati per l’uccisione degli ebrei. Quando vennero deportati da Roma ad Auschwitz, Pio XII non intervenne”. Per chiunque si rechi a visitare il museo Yad Vashem, nella zona riservata alla Chiesa cattolica e appunto a papa Pacelli, oggi l’impatto è drammatico.

In Vaticano si sta valutando la messa a punto di una linea che non vuole essere di mediazione o peggio di resa, ma neppure di chiusura. La prima avvisaglia di insorgenti nuove difficoltà si è avuta nei giorni scorsi, all’apertura del Sinodo mondiale dei vescovi, quando il rabbino Shera Yshuv Cohen, in piena aula, ha sostenuto che “Pio XII non dovrebbe essere beatificato o preso comunque come modello”. Era la prima volta che un rabbino veniva invitato in un consesso ufficiale della Chiesa cattolica, in segno di amicizia e di volontà di dialogo. Grande lo sconcerto dei padri sinodali, a sottolineare quasi una “intrusione” negli affari interni di un’altra organizzazione religiosa. Ma qualcosa si stava già muovendo, quasi a segnalare una difficoltà e un imbarazzo del Papa, proprio per essere un tedesco. Sulla scena irrompeva la figura del postulatore della causa di beatificazione, padre Peter Gumpel, per far capire (non annunciare) con rammarico come quella causa fosse di fatto bloccata, ma anche che Benedetto XVI difficilmente si sarebbe recato a Gerusalemme, proprio a motivo della ricostruzione del personaggio Pacelli, versante morale e versante politico, proposta dal museo Yad Vashem. Ciò nonostante, “il Papa vuole pur sempre avere buoni rapporti con gli ebrei”. Ma chi è questo padre Gumpel? Una venatura di giallo la introduce, come non di rado gli capita, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga quando afferma che: “So chi si cela sotto quel nome. Non mi meraviglia ben sapendo io, tra i non molti, a motivo degli uffici che ho ricoperto, chi si cela sotto il nome quasi anonimo di Gumpel”. Allusivo ed ermetico insieme, Cossiga affonda sul Gumpel un giudizio durissimo: “Gratta gratta dal prussiano, anche se gesuita, esce fuori sempre l’antisemita e un poco anche il nazista”. Quale peso dare alle parole di Cossiga? E in che contesto collocarle? Chi è veramente Peter Gumpel? Spetta alla cronaca dare risposte, anche per diradare una vaga aria di spy story che sembra addensarsi attorno all’episodio.

Sta di fatto che il portavoce ufficiale della Santa Sede, padre Federico Lombardi, alla fine è costretto a intervenire per mettere in chiaro due cose. La prima riguarda il grado di avanzamento della causa di beatificazione. “Il Papa – ha detto -non ha ancora firmato il relativo decreto ritenendo opportuno una tempo di approfondimento e di riflessione”. A suo parere, la documentazione su Pacelli esistente nel museo di Gerusalemme, dovrebbe essere “oggetto di una nuova, obiettiva e approfondita considerazione”. Tuttavia “per quanto rilevante, non si può considerare questo fatto come determinante” ai fini di una prossima, eventuale visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Pur attraverso tutte le cautele della prassi vaticana, questo sì che è un annuncio, magari non del tutto categorico, con ampi margini di modifica di fronte a possibili sviluppi, le diplomazie possono far sempre miracoli e stavolta passano all’esame di una mediazione concreta: stop formale al processo di beatificazione (gli esperti naturalmente continueranno il loro lavoro ma con discrezione assoluta), accantonamento degli aspetti più aspri dell’annoso contenzioso storico (anche qui la ricerca continuerà a fare il suo corso), approfondimento e sviluppo delle relazioni bilaterali sulla strada tracciata da Karol Wojtyla nello spirito del suo spettacolare pellegrinaggio al Muro del Pianto, ricerca di elementi di convergenza nella città e nella regione delle tre religioni monoteiste dove spesso, nel corso dei secoli, si sono decise le sorti del mondo.

Israele ha già accettato questo percorso. Simon Peres ha fatto sapere di non scorgere “alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita del Pontefice a Gerusalemme, che comunque è una visita santa per tutti noi e non ha niente a che fare con altre dispute”. Anche Roma dovrà fare la sua parte. Benedetto XVI continuerà a pregare per l’anima di Pacelli ma non sarà lui a collocarlo sugli altari. Nessuno può scommettere sulla durata della prevista revisione storica, in che misura essa potrà far cambiarein modo positivo i sentimenti dell’insieme del mondo ebraico. A Roma come a Gerusalemme si fronteggiano specularmente possibilisti e intransigenti. Le due parti continueranno a parlarsi. Il 30 ottobre Benedetto XVI riceverà in Vaticano il rabbino David Rosen e i membri dell’International Jewish Committee on Interreligious Consultations; a novembre si terrà a Budapest un vertice ebreo-cattolico guidato dal cardinale Kaspar. C’è qualche buon auspicio. Ma il tema della Shoah non consente debolezze nel cuore e nella mente di ogni israelita. Non a caso in questi giorni dal museo Yad Vashen è giunta una richiesta preliminare: che il Vaticano apra i suoi archivi. Londra lo ha già fatto e due studiosi italiani, Mario Cereghino e Giuseppe Casarubea, hanno riportato alla luce un rapporto dell’inviato straordinario del governo britannico sir D’Arcy Osborn sul suo incontro con Pio XII il 18 ottobre 1943, mentre gli ebrei romani presi durante la razzia nel ghetto venivano avviati alla stazione Tiburtina per essere spediti ad Auschwitz. Ebbene, stando al rapporto di Londra, il diplomatico si mostra colpito dal fatto che il Papa non dica niente sulla retata e che, per converso, afferma di non aver motivo di lamentarsi con il comandante nazista della piazza di Roma, generale Von Stahel. E’ un momento che può aver valore decisivo. Il già citato padre Gumpel sostiene che quell’incontro avvenne, sì, ma non il 18, bensì il 14 ottobre 1943 allorché “il Papa non poteva parlare di qualcosa che non era ancora accaduto”.

Chi è che mente? O, per dirla delicatamente, chi è che nasconde la verità?