La nota sulla povertà relativa diffusa questa mattina dall’Istat sembra quasi la fotocopia di quella dello scorso anno. Le variazioni sono minime, quasi impercettibili. Il dato è evidente: la povertà relativa, quella che si misura in funzione di una determinata soglia del consumo delle famiglie, non si muove. Le cose non migliorano per una valanga di persone, visto che l’Istat conferma che nel 2007 sette milioni e 542 mila individui risultavano poveri: il 12,8% dell’intera popolazione. La situazione è quasi immobile e anzi - se proprio si devono andare a scoprire le differenze con gli anni passati - si possono notare due elementi che meritano una riflessione ulteriore. Il primo elemento riguarda la comparsa sulla scena della povertà di quelle persone che sono catalogate come working poors, ovvero persone che pur avendo un’occupazione (magari anche con un contratto a tempo indeterminato) non riescono a superare la fatidica soglia della povertà relativa che equivale a 986,35 euro al mese per un nucleo di due persone e a 591,81 euro al mese se si considera un singolo individuo. Ebbene – come si può vedere con chiarezza dai dati dell’Istat – in Italia cresce la percentuale di persone assimilabili al concetto statistico-sociologico di working poors.

Il secondo elemento riguarda le politiche: l’unico dato positivo che l’Istat è riuscita a mettere in evidenza riguarda il leggero miglioramento di cui ha beneficiato una parte delle famiglie con figli che risiedono nel Mezzogiorno, ancora la zona del paese con la massima concentrazione di poveri. Dalla nota Istat che si riferisce alle dinamiche del 2006 risulta che una fascia di famiglie con tre o più figli residenti soprattutto nelle regioni meridionali è passata da una percentuale di quasi il 50% a una del 36,7%. Si tratta evidentemente di uno degli effetti positivi delle politiche fiscali e delle politiche della famiglia messe in atto dal governo di centrosinistra. Dunque un miglioramento avvenuto prima dell’avvento del governo Berlusconi e delle sue politiche tremontiane di populismo paternalistico. I poveri sono stati meno poveri quando si sono applicate politiche di equità fiscale e di redistribuzione del reddito. E’ l’unico – quasi impercettibile – miglioramento. Per tutto il resto si registra un vuoto assoluto delle politiche contro la povertà, sia essa relativa o assoluta. Contro la povertà relativa, il fallimento finora è stato assoluto. E l’Italia continua ad essere l’unico paese che non ha una politica organica contro la povertà e l’esclusione sociale.

Ma a parte i facili giochi di parole e a parte le possibili scontate critiche all’Istat che ancora non ci fornisce i dati statistici sulla povertà assoluta (a proposito la notizia è stata annunciata oggi: dal prossimo anno avremo anche i dati sulla povertà assoluta), quello che emerge con grande chiarezza dalle cifre dell’Istituto centrale di statistica è l’immagine di un paese fermo, bloccato. E’ questo il vero male del paese, il vero blocco, che non sembra emozionare più di tanto i vari commentatori delle caste, che pensano ad attaccare i sindacati un giorno sì e un giorno no, ma che dei poveri, delle disuguaglianze sociali, degli ultimi e dei penultimi non sembrano interessarsi minimamente.

L’altro dato molto preoccupante riguarda proprio i penultimi. Dalle statistiche risulta chiaro che accanto alla registrazione di una situazione stazionaria per gli ultimi, ora sembra che la povertà relativa cominci ad aggredire anche i penultimi. Si tratta appunto dei working poors, ma non solo. Ci sono tantissime famiglie operaie, ma anche famiglie di impiegati monoreddito che non ce la fanno, insieme a migliaia di famiglie di pensionati. Non riescono ad arrivare alla fine del mese e rischiano di scivolare costantemente sotto la soglia della povertà relativa. La differenza la fa lo stile di vita. Moltissime famiglie riescono a salvarsi non tanto perché non riescono a guadagnare di più (cosa che per molti è solo un sogno viste le attuali dinamiche di salari e stipendi). Si salvano solo perché fanno economia, cercano di tagliare le spese costantemente. Ma a volte non basta neppure questo e per le famiglie divorziate, per quelle che hanno tanti figli e per quelle che hanno a carico anziani o persone disabili e non autosufficienti, il passaggio alla categoria dei poveri relativi è sempre in agguato.

L’altra considerazione a margine, ma poi neppure tanto, riguarda il modello di welfare che il governo Berlusconi vorrebbe imporci. L’introduzione della social card di Tremonti e i riferimenti del ministro Sacconi nel Libro Verde alla battaglia contro la povertà assoluta sono due campanelli di allarme. Da una parte si pensa allo smantellamento del welfare, sostituendolo con un modello di assistenzialismo pietistico (il pacco di pasta al povero). Dall’altra Sacconi ci dice che si deve contrastare solo la povertà vera, quella assoluta. Dare aiuto (chissà poi come senza soldi) solo ai poveri-poveri, tutti gli altri si arrangino. Ma siccome non sappiamo chi sono i poveri-poveri, bisognerà stare molto attenti al trabocchetto.

Una politica seria, al contrario, dovrebbe ricominciare a pensare in grande. E anche a sinistra forse si dovrebbe riflettere. C’è chi pensa che una delle ragioni della crisi attuale della sinistra consiste proprio in queste dimenticanze. Ci si è dimenticati degli ultimi, ma anche dei penultimi. Anzi forse – potremmo dire con una certa cattiveria – che ci si è dimenticati soprattutto dei penultimi. Che poi sono i veri protagonisti nascosti di questa ultima nota dell’Istat.