PHOTO
Da un anno esiste un ministero per la Famiglia e la natalità, e la premier Meloni non perde occasione per lanciare anatemi contro le troppe poche nascite. Ma oltre alle parole, spesso usate anche male e a sproposito, nulla accade. Nella manovra all’attenzione del Parlamento nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale trova riscontro, anzi aumenta l’Iva per i prodotti per l’infanzia. E la perversa logica dei bonus non fa che fotografare l’esistente perpetuando diseguaglianze e distanze.
Siamo la periferia d’Europa
Entro il 2010 il 33% di bimbe e bimbi da zero a 3 anni avrebbe dovuto trovare posto all’asilo nido. Questo l’obiettivo che aveva fissato Bruxelles per i Paesi membri della Ue. Oggi l’Istat ci dice che nello scorso anno educativo (2021-2022), a distanza di 11 anni da quell’obbiettivo, ancora non si è andati oltre il 28% con enormi differenze territoriali: al Centro-Nord si è al 34,4% mentre al Sud al 16,2%. Non solo, secondo uno studio dell’Area Stato sociale e diritti, e dell’Area sviluppo della Cgil nazionale, negli ultimi 10 anni si sono persi per strada circa 14mila posti che allora c’erano e oggi non ci sono più.
La giustificazione? Proprio quel calo demografico che Meloni e le sue ministre e ministri dicono di voler contrastare. In sostanza, vanno aumentati i posti nei nidi per metterci al pari degli altri Paesi, però siccome calano i nati si tagliano quelli che c’erano. Davvero un paradossale modo di agire.
Cgil: meno promesse e meno retorica
“È paradossale che un Paese tra i più vecchi al mondo non investa sui bambini e sulle bambine. Il diritto a frequentare un asilo nido viene garantito a poco più di un bambino su quattro, mentre in 900mila sono ancora esclusi dai servizi educativi per la prima infanzia. Uno scenario preoccupante. Al governo chiediamo meno promesse e meno retorica sulla natalità: occorrono politiche strutturali e di prospettiva che vedano la centralità dei bambini, dei loro diritti, dei loro bisogni”.
A parlare è Daniela Barbaresi, segretaria nazionale della Confederazione di Corso Italia, che aggiunge: “L’unico dato apparentemente positivo, quello della percentuale di posti nido rispetto al numero dei potenziali fruitori, è determinato in realtà dal calo delle nascite”, “oltre al problema dell’insufficiente numero di posti, peraltro inferiore a quello degli anni pre-pandemici e con metà dei nidi con liste d’attesa”.
I numeri di un’emergenza
Secondo l’ultimo Report dell’Istat nel nostro Paese esistono 13.518 servizi attivi e 350.307 posti autorizzati al funzionamento tra pubblici e privati. E se ancora non si è raggiunto l’obiettivo del 33%, “resta decisamente lontano il nuovo obiettivo europeo del 45% di bambini frequentanti servizi educativi di qualità entro il 2030”. Per non parlare dei divari territoriali: proprio nelle regioni meridionali, quelle dove è più importate accogliere i piccoli, non si arriva nemmeno alla metà dell’obbiettivo.
Ricorda ancora l’Istat: “A livello regionale l’Umbria è la regione con il più alto livello di copertura (43,7%), seguita da Emilia Romagna (41,6%), Valle d’Aosta e Provincia Autonoma di Trento (41,1%). La Toscana, il Friuli-Venezia Giulia e il Lazio si attestano sopra la soglia del 33% (38,4%, 36,8% e 36,1%). Di contro, fra le regioni del Sud, restano ancora al di sotto del 15% Campania, Sicilia e Calabria (11,7%, 13% e 14,6% rispettivamente), mentre la Sardegna con il 32,5% fa registrare il livello più alto”.
Caro mi costi
E questi servizi costano molto, sia ai Comuni che alle famiglie. Ma anche rispetto alle risorse i divari si fanno sentire eccome. E a ben contare si scopre che proprio in quei territori dove più numerose sono le famiglie in difficoltà economica e quelle proprio in povertà, si spende meno per i servizi all’infanzia. Dallo studio della Cgil risulta che, “sommando la spesa sostenuta dai Comuni per la gestione dei servizi (al netto delle rette pagate dagli utenti) e la spesa dell’Inps per i bonus, le risorse pubbliche impiegate nel 2020 per la fruizione dei nidi passano da 2.575 euro per bambino/a residente nella provincia di Trento a 179 euro in Calabria”.
Non solo, l’Istat aggiunge che “nel 2021 il reddito medio equivalente delle famiglie che iscrivono i bambini al nido è 19.800 euro, contro i 16.100 euro di quelle che non lo utilizzano. Il rischio di povertà è tra le condizioni che limitano l’utilizzo del nido, creando una forbice di circa 10 punti percentuali rispetto ai nuclei che non vivono la stessa condizione sociale: solo il 17,9% i bambini di 0-2 anni a rischio di povertà sono iscritti al nido, contro il 27,5% dei loro coetanei”.
Le diseguaglianze vanno ridotte
Il commento è sempre della segretaria della Cgil, che afferma: “Preoccupano fortemente anche i forti divari territoriali nell’offerta, che corrispondono a notevoli disparità nelle risorse pubbliche erogate. Peraltro - prosegue Barbaresi - le aree più svantaggiate, dove si concentrano le famiglie in peggiori condizioni economiche, beneficiano di meno risorse pubbliche in relazione alla minore offerta di nidi e servizi educativi e contemporaneamente per la minore possibilità di intercettare misure di sostegno come i bonus”.
Insomma, quello che viene descritto è uno strano gioco dell’oca: i bimbi e le bimbe di famiglie svantaggiate che più degli altri avrebbero bisogno di trovar posto nei nidi, sono proprio quelli che invece non trovano posto. Scrive l’Istat: “La condizione lavorativa della madre è la discriminante maggiore della frequenza del nido, infatti, i bambini con la madre lavoratrice frequentano nel 34,2% dei casi, contro il 12,9% dei bambini la cui madre non lavora. Anche un più alto titolo di studio dei genitori garantisce ai bambini maggiori opportunità di accesso al nido: si passa dal 36,9% di frequenza nelle famiglie con almeno un genitore laureato (o con titolo superiore) al 16% per famiglie con al massimo il diploma di scuola secondaria superiore”.
La beffa del Pnrr
Sì, di beffa si tratta, visto che la gran quantità di risorse assegnata al nostro Paese dipendeva proprio dai grandi divari territoriali, sociali e di genere da correggere. Ma tra i tagli previsti dal governo Meloni al piano europeo ci sono ben 100mila posti in meno negli asili nido, oltre che i fondi per i progetti degli enti locali per la rigenerazione urbana e le periferie.
Non è un caso che la dirigente sindacale affermi: “Il governo operi concretamente per il raggiungimento degli obiettivi europei, a partire dalla realizzazione degli impegni del Pnrr, e per un’infrastruttura educativa e sociale strategica per garantire i diritti di tutti i bambini e le bambine a un percorso educativo e di socialità di qualità sin dalla primissima infanzia”.
Ma c’è una domanda che si aggiunge alle altre: come faranno infatti i Comuni ad assumere gli educatori e le educatrici, come faranno a pagare le spese di gestione ordinaria – dalla luce all’acqua – dei nidi, visti i 600 milioni di tagli lineari che la manovra infligge agli enti locali?
La legge di Bilancio
Secondo i calcoli della Cgil, solo per raggiungere l'obiettivo del 33% vanno attivati almeno 70 posti in più rispetto ai 327mila attuali, e per garantirne la gestione diretta da parte dei Comuni occorrono 700 milioni di euro l'anno di spesa corrente e almeno 15mila educatrici/tori in più.
Per arrivare, invece, all'obiettivo del 45% entro il 2023, devono essere attivati 200mila posti in più rispetto a quelli attuali, per i quali occorrono 2 miliardi di euro in più all'anno per la gestione e almeno 45mila educatrici/tori. Invece Meloni si salva la coscienza aumentando il bonus per il pagamento delle rette per la frequenza di asili nido a 3.600 euro annui da corrispondere a famiglie con almeno 2 figli, di cui uno inferiore ai 10 anni e il secondo nato dal 1 gennaio 2024. Operazione che non farà altro che aumentare le diseguaglianze territoriali e sociali che già esistono.
Infatti il commento di Barbaresi è netto e impietoso: “È un intervento che si fonda ancora una volta sull’idea che le sole erogazioni economiche siano una sufficiente leva a sostegno della genitorialità, ma che mal si armonizza con una carenza strutturale dei posti nido e con diseguaglianze territoriali destinate ad accrescersi. Una misura ben lontana dal garantire l’universalità dell’offerta educativa 0-6 con la gratuità degli asili nido e l'obbligatorietà della scuola dell’infanzia”.