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Un medico giovane: Davide Ficco ha 37 anni e vive in Puglia a Terlizzi. Una medica un po’ meno giovane: Mirella Ricci che di anni ne ha 61 e risiede in Toscana, vicino ad Arezzo. Raccontano la professione che esercitano, o che vorrebbero esercitare, con passione, quasi con allegria. E con la partecipazione di chi riflette su ciò che fa per migliorare le cose per sé e per la comunità di cui si occupa. Nel centenario della nascita di don Milani il suo motto suona davvero bene anche in sanità: I care, “mi prendo cura, mi faccio carico”. Andrebbe fatto vivere in ogni ambito sociale, ma sembra non andare tanto di moda in questo tempo.
Scelta di vita e di lavoro
In questa regione, come in Emilia Romagna, sono diffuse le case della salute. Mirella Ricci, oltre a lavorarvi, è anche la presidente della cooperativa che la gestisce: “Sono un'imprenditrice-datrice di lavoro”, scherza. È medica di medicina generale dal '98 per scelta: la laurea nell’89, la specializzazione in geriatria, il corso in emergenza territoriale e 10 anni di attività in pronto soccorso. “La mia giornata comincia alle 8 e va avanti fino a sera tra telefonate, mail, visite a domicilio e in studio. Ho 1.540 pazienti, la Regione Toscana ha varato una delibera che lascia la facoltà di averne fino a 1.800, ma secondo me è una cosa assurda. È difficile seguire 1.500 persone, figuriamoci di più. Basti pensare che i due terzi dei miei associati hanno più di 65 anni e varie patologie”.
Il valore di una vocazione
“Ho finito il corso di medicina generale nel 2017. Dopodiché nella mia attività medica mi sono dedicato alla continuità assistenziale, che esercito tuttora, nella sostituzione di un medico di medicina generale che è stato in malattia per due anni. La titolarità di medicina generale di assistenza primaria non la ho ancora, forse la prenderò quest'anno”.
Frenare il racconto di Davide Ficco è difficile, sembra un fiume in piena nel cercare di trasferire a chi lo ascolta il valore di quel che fa. In Puglia oggi per ogni medico ottimale stabilisce 1.300 assistiti (prima erano 1.000 e la legge ne prevede al massimo 1500): anche qui la strategia di aumentare il numero di pazienti e diminuire quello dei medici è diventato prassi. “Nel mio distretto – osserva – entro l’anno andranno in pensione quattro colleghi ma ne sostituiranno solo uno”.
La crisi delle vocazioni
Pochi posti a disposizione, ma anche pochi medici interessati. Riflette Ficco: “I colleghi che si affacciano a questa attività vedono una professione carica sempre di più dal punto di vista burocratico e sempre più lontana invece da quello che invece è l'aspetto clinico. Di conseguenza molte volte si allontanano, perché fanno delle valutazioni anche di carattere pratico, non solo idealistico. Io ho tenuto duro, ho rifiutato altre specializzazioni perché ci credo veramente nell'assistenza territoriale. Però il lavoro si è burocratizzato molto”.
Burocrazia insopportabile
La casa della salute, per Ricci, è certamente un gran passo avanti rispetto alla solitudine del proprio studio. Però ancora la situazione non è delle migliori. Intanto è un po’ bizzarro che per gestire la casa bisogna associarsi in cooperativa per poter assumere l’assistente di studio e l’infermiera. “La basa della salute è pubblica, ma il datore di lavoro del personale amministrativo e dell'infermiera non è la Asl. Noi vorremmo fare i medici non occuparci del contorno”, commenta.
Certo è che il non esser soli, lavorare insieme ad altri professionisti consente di operare meglio e fare, ad esempio, medicina di iniziativa. “Grazie alla presenza degli assistenti di studio possiamo tenere d'occhio i pazienti cronici, chiamarli periodicamente per controlli e i piani terapeutici e così via”, aggiunge. Questo modello ha sicuramente dei grandi vantaggi: la forma ibrida è consentita anche dal fatto che i medici di medicina generale non sono dipendenti del Ssn ma liberi professionisti in convenzione. Ma, ci domandiamo, non sarà mica questo il modello che si sta ipotizzando per le case di comunità previste dal Pnrr, le strutture delle Asl e i professionisti privati in convenzione? Non è questa la via.
Il bisogno di confrontarsi
Cinque medici che lavorano insieme per scelta, questo racconta Ricci: “Noi ci abbiamo ceduto. Perché lavorare da soli davvero è anacronistico e diventa parecchio pesante. Abbiamo bisogno di confrontarci, riusciamo a fare un po’ di multidisciplinarietà, alcuni di noi oltre al corso di medicina generale hanno anche una specializzazione, ma ovviamente i medici specialisti non sono nella casa, questo dovrà essere il futuro cosi come l’attività domiciliare non compete a noi ma alla Asl e non c’è la presa in carico sociale”.
In Puglia va peggio: case della salute non ce ne sono. Racconta ancora Ficco: “Il problema è sempre il rapporto paziente-medico e la qualità del servizio che si riesce a erogare. Non per una questione correlata al singolo professionista, ma perché l'attività clinica viene limitata da tutto il resto delle attività che sono state poi invece delegate al medico di famiglia”.
Il futuro auspicabile
Sia Ricci che Ficco non hanno dubbi, le case di comunità dovrebbero essere il centro fondamentale della sanità territoriale, all’interno dovrebbero operare i medici di medicina generale non più liberi professionisti in convenzione, ma a tutti gli effetti dipendenti del Servizio sanitario nazionale.
“Se ci fossero attive le case di comunità – aggiunge il medico di Terlizzi - con anche personale infermieristico e amministrativo, i medici di famiglia sarebbero sgravati almeno in parte da queste attività. E poi la presenza di specialisti e altri professionisti della sanità e del sociale consentirebbe la vera presa in carico delle persone. Si rischia però un paradosso: i medici di medicina generale potrebbero essere gli unici a non essere dipendenti del pubblico. Una vera assurdità”.
Il nodo del rapporto di lavoro
Anche per Ricci, certo con gradualità, ma è arrivato il momento dii affrontare nettamente la questione dell’ingresso dei medici di base all’interno del Ssn. “Occorre fare un doppio salto di qualità passando dalla sperimentazione delle case della salute alle vere case di comunità integrando sociale e sanitario e partendo dalla presa in carico complessiva dei pazienti, e dall’altro, proprio a partire da queste, ricostruire la sanità di territorio. Ma ovviamente tutti gli operatori delle case di comunità, dovranno essere dipendenti pubblici, altrimenti il rischio privatizzazione diventerebbe reale”.