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Hanno superato un concorso assai selettivo, hanno conquistato un posto in una scuola di specializzazione di medicina per “imparare” a fare il virologo, l’anestesista, il cardiologo o il pediatra, ad esempio. Frequentano lezioni e corsie d’ospedale, così ci forma. Spesso gli sono affidati pazienti e senza di loro le corsie d’ospedali universitari faticherebbero ad assistere quanti si affidano alle cure delle strutture. Ricevono una borsa di specializzazione. Negli ultimi mesi, come gli altri professionisti della sanità, sono stati colpiti in pieno dalla pandemia e dalla necessità di fronteggiare un virus sconosciuto come sconosciuti erano gli effetti su chi fosse contagiato. Non si sono tirati indietro.
Sono troppo pochi, perché pochi davvero sono i posti di specializzazioni attivati dall’università. Pochi rispetto al numero di laureati in medicina, ma soprattutto pochi rispetto alle necessità di medici specialisti del sistema sanitario nazionale. Pochi non da oggi. Se nelle terapie intensive mancano gli anestesisti e non si trovano sul “mercato”, se mancano virologi e epidemiologi, ma anche pediatri ginecologi e medici di medicina generale è perché negli scorsi anni i posti disponibili nelle scuole di specializzazioni erano programmati non in base ai fabbisogni del servizio sanitario, alle previsioni di pensionamento degli specialisti ecc, ma in base alle risorse stanziate di anno in anno dal Miur. Come più volte ha affermato Andrea Filippi, segretario della Fp Cgil medici, dovrebbe essere il servizio sanitario a definire i fabbisogni e non solo l’università. Forse, aggiungiamo, in generale il numero chiuso andrebbe rivisto.
Quest’anno didattico il numero dei posti messi a concorso in effetti è stato maggiore rispetto al passato, quasi 15mila, ma ancora insufficienti, ma la stagione è stata contrassegnata da un pasticcio, il bando era sbagliato i partecipanti hanno fatto ricorso e il ministero dell’Università ha sospeso per mesi la pubblicazione della graduatoria in “autotutela”. Risultato, fino a poche ore prima di prendere servizio gli specializzandi non hanno saputo dove e quando avrebbero dovuto presentarsi.
Ma la questione, ora, è un’altra: la campagna di vaccinazioni. Intanto gli specializzandi non sono stati inseriti tra quei sanitari con accesso prioritario ai vaccini. Eppure prestano servizio in ospedali. In molte regioni sono riusciti a rientrare nei piani vaccinali solo dopo ripetute richieste e pressioni, anche attraverso la stampa, su aziende sanitarie, università e regioni. Ma non finisce qui. Nell’attesa che arrivino nel nostro Paese le dosi previste per l’immunizzazione dei cittadini e delle cittadine, la campagna vaccinale è partita, ora si tratta di predisporre l’organizzazione necessaria per effettuare nel minor tempo possibile il maggior numero possibili di inoculazioni del farmaco appena arriverà. Servono medici. Gli specializzandi e le specializzande si sono detti, ovviamente disponibili ma chiedono, banalmente, che quella prestazione venga loro appunto riconosciuta come prestazione professionale e non come una parte della formazione e invece sembra proprio non sarà così. Secondo Salvatore Mazzeo dell’Associazione “Chi si cura di te?”: “Ciò che ormai denunciamo da settimane sta per diventare realtà: le università sono pronte ad inserire la campagna vaccinale nei percorsi formativi dei medici in formazione specialistica. Non possiamo più tollerare – aggiunge - che venga sottratto altro tempo alla formazione dei futuri specialisti, per sopperire, ancora una volta, alle carenze della sanità pubblica”.
Significa che gli specializzandi non voglio contribuire alla campagna di vaccinazione di massa? Assolutamente no, vorrebbero – solo – che questa attività che sanno già fare, hanno imparato negli anni di preparazione alla laurea ad inoculare farmaci, fosse volontaria e riconosciuta come attività professionale – e quindi remunerata - che si aggiunge all’attiva di formazione. Dice ancora Mazzeo: “Ribadiamo la nostra più completa disponibilità, in quanto medici, a fare la nostra parte per la salute della popolazione. Il nostro impegno, in tal senso, non è mai mancato. Viceversa, il ministero della Salute e ministero dell'Istruzione università e ricerca non hanno mai mostrato altrettanto impegno nel volersi confrontare con i professionisti della salute coinvolti in prima persona e le nostre continue richieste giacciono ancora senza risposta. Il nostro lavoro non può più essere svilito in questo modo. Siamo medici, chiediamo i diritti che ci spettano in quanto lavoratori e siamo pronti alla mobilitazione per ottenerli”.
Per questo, a fine dicembre, l’associazione Chi si cura di te? Ha proclamato il primo stato d’agitazione dei medici in formazione e dei medici precari. Fra le richieste l’abolizione dell'imbuto formativo ed un contratto collettivo nazionale della formazione medica che garantisca ai medici in formazione i diritti che spettano loro in quanto lavoratori, fra cui una rappresentanza sindacale che sieda ai tavoli dove si decide della loro vita e del loro lavoro.