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Fino a poco più di trent’anni fa, nella provincia italiana, una ragazza che trovava marito smetteva di lavorare. Badare alla casa, mettere al mondo i figli ed essere una moglie perfetta non lasciavano spazio per altri tipi di occupazione. Ma il fatto che, nel 2019, il 73% delle dipendenti abbia lasciato il lavoro entro i primi tre anni dalla nascita di un figlio, sposta l’asse del confronto più indietro di altri decenni ancora. Secondo i dati dell’Ispettorato del Lavoro, in Italia 37 mila neo mamme si sono dimesse volontariamente nell’ultimo anno. In quasi 21 mila casi, tra le principali ragioni addotte c’è – senza sorpresa – la difficoltà di conciliare l’occupazione con la cura dei figli.
Per assenza di una rete di supporto, per il mancato accoglimento al nido, per i costi troppo alti di asili e baby sitter, per la rigidità degli orari e delle condizioni occupazionali. Nonostante una concezione del lavoro novecentesca non esista più, molte aziende stentano ancora a dotarsi di pratiche mother friendly. Non solo si persevera in azioni illegali come quella delle dimissioni in bianco, o domande scorrette ai colloqui. Manca la disponibilità a venire incontro alle esigenze delle mamme che lavorano, come se fossero, a prescindere, meno produttive: solo il 21% delle richieste di part-time presentate da lavoratori con figli piccoli è stato accolto. La flessibilità tanto richiesta sembra essere, insomma, unilaterale.
La fotografia più efficace resta ancora la vignetta pubblicata qualche tempo fa dal miliardario indiano Anand Mahindra, dopo aver trascorso un pomeriggio con suo nipote: una pista, lavoratori e lavoratrici ai blocchi di partenza. Solo che il percorso per le donne è a ostacoli e per arrivare al traguardo bisogna superare lavatrici, fornelli, bucato, ferri da stiro. La realtà dei fatti resta, ancora oggi, che in Italia solo il 57% delle mamme lavora, rispetto all’89,3% dei papà. Guardando lo stesso dato da un’altra prospettiva, le madri lavoratrici sono solo il 6% della popolazione. I numeri dell’ultimo rapporto di Save The Children sulla maternità in Italia, “Le equilibriste”, fanno paura. Se si tratta di dover fronteggiare le esigenze familiari, sono soprattutto le donne a chiedere una riduzione dell’orario di lavoro (il 18% dei casi contro il 3% degli uomini). Cioè, sono le donne a scegliere (o accettare) di stare più tempo a casa, di rinunciare a un pezzo della propria realizzazione personale.
Facciamo i conti con un modello culturale sbilanciato sulla vecchia equivalenza padre di famiglia/sussistenza economica. Verbi come “aiutare”, “collaborare”, “dare una mano” fanno ancora parte del vocabolario del ménage familiare, accanto al neologismo “mammo”, per definire un padre che si occupa di tutto. Il carico di cura nelle famiglie più a rischio povertà pesa totalmente sulle spalle delle donne: oltre la metà (51,7%) è da sola ad occuparsi dei figli e delle faccende domestiche. Senza dimenticare i genitori single, 302 mila madri (i padri sono 47 mila) che devono fare tutto da sole.
In Svezia, sin dal 1974, ai genitori spettano 480 giorni di congedo e, nelle prime due settimane dopo la nascita, hanno la possibilità di accudire il bambino congiuntamente. Tutti gli altri giorni possono essere suddivisi equamente tanto che, secondo i dati dell’Istituto svedese di previdenza sociale, il 71% dei padri usufruisce di almeno due mesi di astensione. In Italia, da quest’anno, i papà potranno usufruire di sette giorni di congedo obbligatorio (prima erano quattro) più uno facoltativo (alternativo a quello della madre).
Prima di decidere di mettere al mondo un figlio, una donna italiana deve pensare: al suo stipendio (già di partenza più basso rispetto a quello dei colleghi); alla paura di rimanere fuori dal mercato; alla prospettiva di potere (o dovere) lavorare fino al termine della gravidanza. E, dopo, all'eventualità di lasciare il proprio figlio di pochi mesi per rientrare a lavoro o, in alternativa, al lusso di un congedo facoltativo retribuito al 30%, che probabilmente sarà lei a chiedere, piuttosto che il suo compagno. Decide, infine, di rimanere incinta e di fermarsi per un po’. Smaltisce fino all’ultimo giorno di ferie arretrate, richiede la riduzione delle ore lavorative per l’allattamento e usufruisce di tutte, ma proprio tutte, le opzioni a sua disposizione. Ma sa già che alla fine, in qualche modo, esplicitamente o meno, questa sua scelta le verrà fatta pesare. E comunque con buona probabilità, dopo aver riflettuto, penserà di ridursi le ore e richiedere un part-time.