I numeri sono spietati. Dalla fine di febbraio dello scorso anno si sono ammalati di Covid quattro milioni 59mila ottocentoventuno uomini e donne. Questi sono i contagiati censiti, ma, come affermano gli esperti, sono assai sottodimensionati. Tre milioni 524mila centonovantaquattro sono i guariti, mentre in 121mila settecentotrentotto non ce l’hanno fatta. Solo il 4 maggio sono morte 305 persone. Positivi al test Covid, oggi, sono 413mila ottocentottantantanove uomini e donne. Solo da pochissimi giorni la saturazione di terapie intensive e reparti Covid ordinari, se di ordinarietà si può parlare, è tornata sotto i livelli di guardia, anche se non di molto. E proprio due giorni fa l’Istat, nel report sugli indicatori demografici del Paese, ha certificato una diminuzione dell’aspettativa di vita degli italiani e delle italiane: nel 2020 abbiamo perso ben 14 mesi.
Dietro questi numeri, impegnati a lavorare affinché non fossero molto peggiori, ci sono operatrici e operatori sanitari: medici, infermieri, tecnici di laboratorio e molti altri. Da oltre un anno lavorano con passione per contrastare un virus che nessuno conosceva e che ancora oggi, in parte, resta misterioso. Non si sono risparmiati, rimettendoci salute e qualche volta la vita. Operando in condizioni difficili e con pochi, pochissimi riconoscimenti.
Tagli, tagli e solo tagli, questa è stata la strategia degli ultimi vent’anni. Soprattutto blocco del turn over, che ha sottodimensionato la pianta organica della sanità italiana e ha paurosamente alzato l’età media dei dipendenti. Non solo: come abbiamo più volte raccontato, anche le università, con una politica di numero chiuso sciagurata, hanno formato un numero insufficiente di specialisti. Il risultato è stato un carico di lavoro quasi insopportabile ma svolto con la consapevolezza che la loro capacità professionale era quasi l’unico strumento in grado di gestire un’emergenza mondiale.
E quel che sta accadendo in India mette sotto gli occhi di tutti quanto organizzazione, diffusione ed efficienza del sistema sanitario facciano la differenza in caso di pandemia. Il nostro Ssn va ringraziato, ma ricostruito. A cominciare dalla necessità di stabilizzare quanti sono stati assunti in via temporanea per affrontare il Covid ma di cui ci sarà un gran bisogno per fronteggiare quella che rischia di essere una pandemia nascosta: le patologie non diagnosticate e non curate proprio a causa del coronavirus.
Quello che i medici che abbiamo incontrato ci dicono è che la fatica, fisica e psichica, accumulata in questi 15 mesi è davvero tanta, troppa. Riaprire va bene, ma quando i numeri lo consentono. Sono ancora troppo pochi i fragili, per età o per patologia, vaccinati. E sono ancora troppi i contagi e i morti, perché si allenti eccessivamente la briglia. Soprattutto perché, come dimostra piazza del Duomo a Milano invasa dai tifosi interisti, la responsabilità individuale è davvero troppo bassa.
Siamo tutti stanchi, e vorremmo tutti e tutte tornare a una vita “normale”, ma quale sarà la normalità dopo la comparsa del virus nessuno lo sa, e certamente sarà diversa. Più di noi sono stanchi medici e infermieri che desiderano uscire di casa e riabbracciare gli amici, e che desiderano tornare a lavorare con tempi e modi ordinari, e soprattutto desiderano non dover assistere quasi impotenti alla fine di chi non riesce a sconfiggere il virus.
Aperti sì, insomma, ma con gradualità, attenzione e responsabilità.