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A gennaio il Consiglio dell’Unione europea ha adottato una Raccomandazione in cui si richiama la responsabilità dei Paesi a far sì che “tutte le persone che non dispongono di risorse sufficienti, compresi i giovani adulti, siano coperte da un reddito minimo stabilito dalla legge”, che sia continuativo finché “le persone non dispongano di risorse sufficienti”. A marzo il Parlamento europeo ha adottato una Risoluzione sul reddito minimo in cui si richiama la “preoccupazione per la pressione che l’attuale crisi del costo della vita sta esercitando sulle persone e sulle famiglie svantaggiate”, e si sottolinea come sia necessario aumentare gli sforzi per sostenere “le persone che non dispongono di risorse sufficienti”.
L'ostinazione italiana
La risposta del governo italiano, in un Paese in cui l’incidenza della povertà assoluta è già ai massimi storici (9,4%) e un quinto della popolazione è a rischio povertà (20,1%) - dati Istat 2021 -, è perseverare nell’annunciata soppressione della misura di contrasto alla povertà vigente. Il reddito di cittadinanza non è perfetto e richiede correttivi, come abbiamo sempre sostenuto con l’Alleanza contro la Povertà, ma è stata una forma di sostegno al reddito che ha raggiunto – dati Inps - 1,7 milioni di famiglie nel 2022 per quasi 3,7 milioni di persone, la stragrande maggioranza delle quali, per usare una definizione arbitraria cara al governo, “non occupabili”.
La falsa retorica del divano
L’ultima nota Anpal dice, infatti, che, al 31/12/2022, erano meno di 1 milione i beneficiari indirizzati ai centri per l’impiego e di questi, tolti gli esonerati o rinviati ai servizi sociali, il 17,8% era già occupato. La retorica del percettore di RdC che sta sul divano non esiste nella realtà certificata dai numeri, ma vive, purtroppo, nelle disposizioni che vuole adottare il governo.
Le nuove misure del governo
In attesa di vedere il testo ufficiale del provvedimento che supererà il reddito di cittadinanza, le indiscrezioni giornalistiche e le bozze circolate confermano la linea tracciata con la Legge di bilancio 2023, volta a dividere la platea della popolazione in condizione di povertà in base allo stato di famiglia e non alla condizione economica. L’intenzione è arrivare a due strumenti, uno (Garanzia per l’inclusione) rivolto ai nuclei al cui interno vi sia un minore, un anziano o un disabile, rinnovabile nel tempo, e un altro (Garanzia per l’attivazione lavorativa), di importo inferiore, rivolto a chi è considerato “occupabile” in ragione della sola età anagrafica (18-59 anni), e che sarà a termine, a prescindere dal perdurare della condizione di bisogno.
Universalità addio
Andranno analizzate nel dettaglio le disposizioni dell’annunciato provvedimento per valutarne gli effetti e i profili di criticità (soglie di accesso, importi, scala di equivalenza adottata, termini della condizionalità, presa in carico, eventuale permanenza dei profili discriminatori e della sproporzionatezza delle sanzioni), ma un elemento di fondo, oltre alla volontà di ridurre le risorse complessive stanziate per la lotta alla povertà, appare già chiaro: il governo vuole superare l’universalità, propria di una misura di welfare, in favore di un criterio categoriale che non ha paragoni in Europa o fondamenta teoriche, è punitivo e continua a confondere e sovrapporre in modo improprio politiche di contrasto alla povertà e politiche attive.
Un intenso bisogno di formazione
Secondo Anpal, inoltre, i beneficiari di Rdc non occupati sono “difficilmente occupabili”: il 74% è lontano dal mercato del lavoro e il 71% ha un titolo di studio di istruzione secondaria inferiore, il che li rende bisognosi di percorsi e tempi idonei di formazione e riqualificazione (a meno che non si voglia destinarli a quelle mansioni a bassa qualifica che svolge il 94% dei beneficiari di Rdc già occupati), senza trascurare l’altrettanto necessaria presa in carico multidimensionale richiesta dalla condizione di povertà in cui si trovano.
A chiunque non disponga di risorse sufficienti per una vita dignitosa, infatti, devono essere assicurati sostegno economico e percorsi di inclusione, sociale e lavorativa, capaci di attivare la pluralità di interventi e servizi atti a rispondere alla molteplicità di bisogni che ne hanno determinato la condizione di povertà e che da essa sono prodotti, in quella catena di causa-effetto che non è dovuta a una qualche colpa individuale e che, invece, la società che l’ha generata ha la responsabilità di spezzare.
Giordana Pallone, coordinatrice area Stato sociale e diritti Cgil