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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione “Tema” del n. 1/2019 della Rivista delle Politiche Sociali. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla pubblicazione
Non raramente le istituzioni pubbliche vengono considerate un ostacolo ai processi di innovazione – specie le amministrazioni centrali –, mentre si assume che le amministrazioni locali e il Terzo settore siano più capaci di promuovere innovazione sociale grazie alla prossimità ai cittadini, che consentirebbe di individuare problemi e soluzioni e di attivare risorse e reti sociali per farvi fronte.
La critica al funzionamento del settore pubblico ha avviato ormai da diversi decenni un processo di profonda riconfigurazione del welfare, pur con differenze profonde tra contesti nazionali e locali. In primo luogo, sono state introdotte misure di razionalizzazione amministrativa e coordinamento tra organizzazioni e settori e/o fusioni di diversi ambiti di policy (vedi sportelli per il lavoro e per l’assistenza sociale).
Le pubbliche amministrazioni si sono riorganizzate, anche riducendo il pubblico impiego, i costi dei servizi e la spesa pubblica. Le riforme improntate al cosiddetto new public management hanno teso a migliorare l’efficienza e controllare i costi, per esempio esternalizzando alcune funzioni. Al contempo, nuove modalità di intervento – come l’attivazione o l’empowerment – sono state introdotte non solo per contrastare le “trappole” della dipendenza dal welfare, ma anche per sviluppare forme di cittadinanza sociale più partecipata.
In secondo luogo, una forte tendenza al decentramento ha caratterizzato molte riforme del welfare, finalizzate alla deburocratizzazione e al rafforzamento dei meccanismi di sussidiarietà verticale: l’idea è che i sistemi di welfare locali siano più efficaci ed efficienti, partecipativi e sostenibili. La sussidiarietà orizzontale e quella verticale sono infatti interconnesse: l’attivazione locale delle comunità si basa sul riconoscimento dei problemi e l’intervento tramite reti di prossimità e risorse plurali sul territorio.
La condivisione di funzioni e la creazione di reti miste pubblico-privato, profit-non profit, ha mirato ad accrescere efficacia ed efficienza dei sistemi di welfare e a espandere e diversificare i servizi. Ciò ha implicato anche un certo cambiamento culturale nella pubblica amministrazione: da un’impostazione gerarchica a una (anche) di rete e di mercato – che possiamo sintetizzare nella formula “meno intervento, più coordinamento”.
Il welfare ha attraversato, dunque, in questi decenni una stagione di grande innovazione, per cui l’idea di immobilismo e avversità al cambiamento come suo tratto distintivo è per lo meno discutibile. In questo quadro in trasformazione, le organizzazioni della società civile hanno svolto un ruolo sempre più attivo nella programmazione, progettazione, finanziamento e implementazione delle politiche di welfare.
Una serie di argomentazioni sostiene il loro protagonismo – tra cui, appunto, la loro presunta sensibilità all’innovazione sociale. Pur non mancando le critiche a tale visione e le riflessioni sui potenziali rischi, queste organizzazioni sono in genere ritenute in grado di contribuire in generale all’efficacia ed efficienza del welfare e a una maggior trasparenza e legittimazione delle decisioni politiche.
Tuttavia, la società civile non agisce nel vuoto. Le sue potenzialità di innovazione sono legate sia ai rapporti instaurati con le amministrazioni locali, sia all’impostazione del welfare statale. Il welfare mix organizzato, supportato da uno Stato interventista e da un mercato coordinato, ha il suo contraltare in un welfare mix disorganizzato, in concomitanza con la generale deregolamentazione dell’economia, con partnership più “volatili” e procedure di finanziamento e strategie di coinvolgimento del Terzo settore basate su modelli competitivi, di breve termine e orientati alla performance.
L’idea che la società civile sia sic et simpliciter la voce degli esclusi, intrinsecamente orientata al bene comune non corrisponde alla realtà. Il modus operandi delle organizzazioni del Terzo settore in termini di trasparenza, efficienza, efficacia, capacità di innovazione, analizzato empiricamente, ha mostrato anche distorsioni e squilibri: queste possono diventare dominanti o monopoliste, scivolare verso l’auto-conservazione e l’oligarchizzazione, privilegiare obiettivi di sopravvivenza e consolidamento rispetto alla promozione di innovazione sociale e arrivare a ostacolare la dinamicità complessiva di un contesto.
Al contrario, la portata innovativa, così come l’efficacia e l’efficienza, delle singole organizzazioni e delle reti miste dipende anche dal reciproco rinforzo che si viene a creare tra società civile e ambiente istituzionale. La delega delle responsabilità pubbliche a soggetti di mercato o della società civile non offre adeguate garanzie di tutela dei cittadini, ma neppure di miglioramento e innovazione.
La passività delle istituzioni pubbliche può creare sistemi disfunzionali. Queste rimangono, tuttavia, cruciali sia come garanti di processi di governance democratici e trasparenti, sia nelle funzioni di coordinamento e nei meccanismi di perequazione e accountability, pur restando aperta la questione della garanzia di flessibilità e apertura all’innovazione.
Tatiana Saruis, sociologa, collabora con il dipartimento di Educazione e Scienze umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia; Fabio Colombo, sociologo, collabora con il dipartimento di Economia, Società, Politica dell’Università degli studi di Urbino Carlo Bo; Eduardo Barberis, sociologo, ricercatore presso l’Università di Urbino Carlo Bo; Yuri Kazepov insegna Sociologia e Sistemi di welfare comparati all’Università di Vienna