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Alessia, Giordano e Sonia sono infermieri e infermiere, i primi due davvero giovani, non raggiungono i trent’anni, l’altra un po’ più grande, ma nemmeno troppo. Tutti e tre hanno scelto di abbandonare il posto fisso in ospedale, in tre diversi nosocomi della Capitale, e attraverso una cooperativa di cui si servono le Asl romane, occuparsi dei pazienti a domicilio. Certo, guadagnano ancor meno di prima, ma la qualità della loro vita è nettamente migliorata.
Alessia racconta di aver scelto quest’attività perché per lei il rapporto diretto con i pazienti – “in qualche modo sono per molti l’infermiera di famiglia”, racconta - è importantissimo. Sonia, dopo molti anni in reparti diversi con turni massacranti e con sempre meno colleghi in corsia, ha deciso di lasciare: “era diventato insopportabile”. Mentre Giordano era contento di essere stato assunto da un grande e rinomato ospedale, ma non solo i ritmi di lavoro erano diventati insopportabili, anche le richieste insistenti della direzione sanitaria e il continuo dover coprire turni rimasti scoperti lo hanno indotto a lasciare. Trascorrono le giornate andando di casa in casa a occuparsi di pazienti cronici e fragili. E pensare che anche nel Lazio solo una percentuale bassissima di non autosufficienti riesce a ottenere l’assistenza domiciliare integrata.
Pochi, davvero pochi
Come i medici, anche gli infermieri sono davvero pochi e purtroppo sempre meno. In realtà la crisi di personale infermieristico è ben più grave. Secondo gli ultimi dati disponibili, arrivano da Gimbe e dall’Ocse, nel 2021 gli infermieri e le infermiere dipendenti delle strutture sanitarie erano 298.597, di questi 264.768 dipendenti del Ssn e 33.829 delle strutture equiparate al Ssn.
La media nazionale è di 6.2 (dati di ieri diffusi dall’Ocse) per 1.000 abitanti, con un range che varia dai 3,59 della Campania ai 6,72 del Friuli-Venezia Giulia, con un gap dell’87,2%. L’Italia si colloca ben al di sotto della media Ocse che ne registra 9.2 per 1.000 abitanti. A esser più carenti sono le regioni in piano di rientro e che ne sono appena uscite.
Vuoto difficile da colmare
Sono meno di 300 mila quelli dipendenti del Ssn e strutture assimilate, per raggiungere la media Ocse dovrebbero essere più di 500 mila. Certo è che ne mancano almeno 150 mila. Allora la priorità non può che essere quella di assumere stabilmente un numero sufficiente di infermieri non solo per sostituire chi è andato o andrà in pensione, ma anche – forse soprattutto – per colmare i divari tra quanti ne servono a garantire i bisogni di salute e quanti ce ne sono. Ma non si trovano.
La fuga dal Ssn
Alessia, Giordano e Sonia, come abbiamo visto, sono andati via dal posto ospedaliero che avevano conquistato per condizioni di lavoro e di vita migliori. Allora è proprio da quelle condizioni che occorre partire per tornare a rendere “appetibile” la professione infermieristica. Turni di lavoro insopportabilmente lunghi e salari contrattuali bassi sono il cuore del problema. Se a questo si aggiungono il non riconoscimento professionale adeguato e la mancata possibilità di carriera, il gioco è fatto.
Cosa servirebbe
“Innanzitutto risorse per un piano straordinario di assunzioni e per rinnovi contrattuali adeguati”. A parlare è Giancarlo Go, infermiere in strutture pubbliche da oltre trent’anni e ora responsabile del Coordinamento infermieri della Fp Cgil nazionale: “Il lavoro nei servizi pubblici rappresenta il più grande patrimonio professionale a disposizione del Paese. Qui nasce il rapporto inscindibile tra i diritti dei lavoratori pubblici e i diritti dei cittadini di usufruire di servizi pubblici efficaci ed efficienti, in quanto il miglioramento della qualità del lavoro pubblico è, conseguentemente, miglioramento del sistema delle prestazioni ai cittadini”.
L’imbuto della formazione
Assumere, però, è quasi impossibile per diverse ragioni. Innanzitutto perché sono troppo pochi gli infermieri e le infermiere che si laureano: i posti a disposizione nei corsi di laurea sono troppo pochi ed è sbagliata, ormai da anni, la programmazione. Su 343.566 lavoratori appartenenti alle quattro classi di laurea nelle professioni sanitarie, al 2020 ne sono andati in pensione 11.739, pari al 3.41%: se dovesse rimanere questa tendenza, entro il 2026 saranno 70 mila i lavoratori e le lavoratrici che lasceranno il lavoro, e di questi 52 mila saranno infermieri.
Incrociando i dati dei pensionamenti con i dati Miur relativi ai laureati, con l’attuale tasso di successo medio pari al 78,08% dei posti messi a disposizione, si scopre che sempre al 2026 saranno laureati circa 86 mila professionisti. Quindi del tutto insufficienti per sostituire chi andrà in quiescenza e gli almeno 20 mila infermieri e coordinatori che servirebbero per avviare case e ospedali di comunità previsti dal Pnrr. Ma come abbiamo visto andrebbero assunti anche quelli che mancano per raggiungere la media Ocse tra infermieri e popolazione. Non solo, da questi numeri mancano anche gli infermieri e le infermiere delle strutture private che, ovviamente, si formano negli stessi corsi di laurea di quelli del Ssn.
Tutto da ripensare
A cominciare proprio dai corsi di laurea, troppi docenti medici, troppo pochi provenienti dalle professioni sanitarie. “Ma soprattutto - afferma ancora Go - occorre allontanare definitivamente la stagione dei tagli lineari alla spesa pubblica, fare un serio investimento sulla valorizzazione delle competenze e delle professionalità, costruire le condizioni affinché i dipendenti siano adeguatamente formati, coinvolti e motivati per allontanare gli effetti di oltre un decennio di blocco del turn-over, dei tetti di spesa alla spesa del personale sanitario, dei mancati rinnovi dei contratti”.
Il governo latita
Nulla di ciò che servirebbe davvero è previsto da Meloni e dai suoi ministri. Non si prevede di abolire il tetto di spesa per il personale, in manovra ci sono risorse assolutamente insufficienti (inferiori al triennio 2019-201) per far fronte a un serio rinnovo dei contratti utile a fronteggiare il carovita, vi è solo la possibilità di indennità orarie per far lavorare ancora di più chi è già stremato da tripli e doppi turni. E c’è, invece, quella che il ministro Schillaci definisce come “grande conquista”: la libera professione anche per gli infermieri.
“Il problema non è la libera professione, il problema sono i contratti che debbono essere rinnovati e adeguatamente finanziati anche al fine di valorizzare le competenze come previsto nel Ccnl 2019-2021 del comparto sanità”, replica Go: “La libera professione deve essere una scelta e non una necessità: l’obiettivo deve essere quello di avere uno stipendio adeguato al lavoro svolto all’interno dell’orario contrattualmente previsto, senza costringere i professionisti a dover lavorare di più per pagare le bollette”.
Alla sordità del governo l’unica risposta è lo sciopero. Il 17 novembre anche gli infermieri e le infermiere di tutto il Paese incroceranno le braccia, chiamati allo stop dalla Fp Cgil e dalla Uilpa Uil per rivendicare condizioni di lavoro migliori per garantire il futuro della sanità pubblica e i diritti dei cittadini e delle cittadine.