SARA MINELLI


Da marzo in poi il governo ha prodotto interventi legislativi e stanziato risorse per la riorganizzazione della sanità, l’aumento dei posti letto e l’assunzione di personale. Trasferito norme e soldi alle regioni sembra che poco sia successo. Professor Gianfranco Viesti, è davvero così? E se sì perché?

Io suggerirei a tutti una grandissima cautela nell’interpretazione di quanto è avvenuto. Abbiamo tutti la sensazione che questa seconda ondata ci abbia colpito impreparati, che avremmo potuto fare a tutti i livelli molto di più. Questa impressione c’è, è bene pensarci però io tendo a notare sempre che la stessa cosa è avvenuta praticamente in tutta Europa: con modelli organizzativi diversi, con sistemi differenti, questa seconda ondata è stata fortissima in tutti i paesi europei. Quindi, posta l’utilità di ragionare su carenze e difficoltà adotterei comunque un approccio cauto alla valutazione di ciò che è stato fatto. Detto ciò, anche per la straordinarietà di quello che sta succedendo, abbiamo un milione di contagiati su 60 milioni di popolazione, la risposta del sistema avrebbe potuto essere migliore. L’impressione che si ha è che ci siano state debolezze attuative soprattutto delle regioni sul lato sanitario in primo luogo, ma anche su quello della riorganizzazione del trasporto pubblico. L’impressione è abbastanza forte, evidentemente c’è stata una capacità inferiore a quelle che avrebbe dovuto essere. Sono cauto a dare responsabilità, ma certamente non possiamo dire che il sistema funzioni perfettamente e cioè che le capacità regionali sono dappertutto eccellenti.

Ma l’aver affidato il sistema sanitario alle regioni, dal punto di vista dell’efficienza funziona?

Questo è un problema strutturale, abbiamo tanti anni di riflessioni per cui possiamo fare qualche valutazione un po’ più netta. La mia valutazione è che ci sia un eccesso di decentramento da almeno due punti di vista. Innanzitutto il sistema sanitario nazionale è troppo differente da un caso all’altro e questo non aiuta: la salute è chiaramente un tema nazionale se non europeo e quindi il livello di governo andrebbe portato molto in alto e dovrebbe essere affrontato con alcune linee politiche comuni a tutti. Mi pare di capire che la linea che ora sta seguendo il governo sia quella di forte potenziamento dei servizi territoriali che se funzionassero eviterebbero l’ingolfamento degli ospedali e dei pronto soccorso.

Tra le regioni, poi, ulteriori differenze. Già prima del Covid in quelle del Sud non si realizzavano i Lea e di conseguenza il diritto alla salute era disatteso e l’aspettativa di vita non solo aveva smesso di crescere ma si era ridotta. Perché?

Alcune regioni hanno una capacità insufficiente di fornire il servizio salute ai cittadini. Per valutare abbiamo i dati dei Livelli essenziali di assistenza che ci dicono, ad esempio, che i servizi di prevenzione – purtroppo non esiste solo questa malattia me ne esistono tante altre che andrebbero appunto prevenute – e di screening che si fanno in alcune regioni sono nettamente inferiori rispetto a quello che dovrebbero essere. Sono almeno dieci anni, se non quindici, che ci limitiamo a prendere atto di questa situazione come se fosse un problema di quei cittadini, di quella regione e dei suoi amministratori e non invece una questione di diritto che deve essere garantito a tutti indipendentemente da dove si vive. Sicuramente un sistema troppo differenziato tra regioni e un sistema che non funziona.

Negli ultimi quindici anni si sono tagliati ben 37 miliardi alla sanità, c’è il blocco del turn-over e il tetto per la spesa destinata al personale che deve essere uguale a quella del 2014 meno 1,4%. Ma questi tagli hanno inciso in maniera differente tra le diverse zone di Italia. Sono cattiva gestione delle regioni del Sud?

Certamente esiste una relazione molto importante tra complessivi livelli di sviluppo delle regioni e qualità dei servizi, è una relazione che non dovrebbe esserci.  Ma il fatto che la sanità non funzioni in Calabria non è un problema dei calabresi: dovrebbe essere un problema politico, etico, sanitario di tutti gli italiani. Da questo punto di vista, però, io noterei che le Regioni fanno tanto anche perché parlamento e governo, almeno fino al 2019, sono stati ben poco attenti e ben poco capaci di dare delle grandi linee di indirizzo. Il centro, da dieci anni a questa parte, è stato attento soltanto agli equilibri di bilancio. Viviamo in un Paese che ha smesso di fare le politiche dell’istruzione, della sanità, dei trasporti occupandosi solo dei saldi di bilancio. Le conseguenze sono che non dando grandi indirizzi i diritti sono molto differenziati tra ceti sociali e tra territori. E le due questioni in parte si sovrappongono perché i diritti all’istruzione, all’assistenza e alla salute al Sud sono meno tutelati, anche perché in quelle regioni la quota di popolazione socialmente più debole è più grande. Le diseguaglianze tra territori e le diseguaglianze tra le persone sono due facce della stessa medaglia.

Esiste un problema di politiche e di indirizzi, ma esiste un problema anche di risorse?

In sanità clamorosamente sì. Esiste un colossale problema di risorse, nell’ultimo decennio c’è stato un incremento molto inferiore al necessario e soprattutto c’è stata una riduzione del personale. I dati ci dicono che per quanto riguarda i medici, rispetto agli altri Paesi europei ne mancano ma non in maniera clamorosa. Molto più grave la situazione degli infermieri e infatti la difficoltà ad aprire nuovi reparti e terapie intensive dipende dalla mancanza di personale. Posto questo quadro nazionale, la situazione è molto differenziata tra i diversi territori, nelle regioni in cui la sanità era più debole è stata indebolita maggiormente.

I cittadini calabresi e quelli lombardi hanno lo stesso stanziamento pro capite per la salute?

No, ci sono scarti significativi anche perché ci sono ogni anno e quindi si sommano nel tempo. Il federalismo fiscale, cioè i sistemi di allocazione delle risorse tra regioni è stato fatto solo in parte e solo quando conveniva ai più forti. Nel sistema sanitario, per l’erogazione delle risorse, non esiste nessuno indicatore di bisogno ma c’è semplicemente un riparto basato sulla popolazione per un terzo pesata sull’anzianità. Il risultato è che la quota che spetta ad un calabrese è del 15% inferiore a quella che spetta ad un emiliano romagnolo. Questa è la cruna da cui deve passare il cammello. Abbiamo passato dieci anni illudendoci che tutto andasse bene, tagliando le cifre totali e con una lotta sorda tra i territori. Da un lato i più forti che non volevano la riduzione delle proprie risorse e dall’altro le regioni più fragili che avrebbero avuto bisogno di aumentarle per migliorare il proprio servizio sanitario ma se si dà di più a uno inevitabilmente dai meno all’altro. Per altro, sarebbe bene ricordare che i bisogni di salute non sono uguali dappertutto, sono maggiori dove la popolazione è più debole socialmente, ha dei livelli di istruzione più bassi e dove la povertà è maggiore. Bisognerebbe usare più indicatori per decidere la ripartizione delle risorse, solo che più indicatori avrebbero redistribuito in maniera diversa, per questo non sono mai stati cambiati. E questa è la storia del federalismo fiscale, quella di un potere centrale esclusivamente dedito agli equilibri di bilancio, l’allocazione delle risorse guidata dai più forti e in tutto ciò è stata totalmente assente la valutazione dei bisogni dei cittadini. Certo, un Paese che non cresce non riesce a destinare risorse alla sanità alla istruzione, all’università. Ma un Paese non cresce anche perché non si destinano risorse alla sanità, alla riduzione della povertà, alla istruzione e all’università. Gli anni Dieci del 2000 sono stati anni bui, speriamo che gli anni venti siano meglio. La priorità deve essere generare nuove risorse per finanziare questi grandi diritti di cittadinanza.