Sono 36 i medici e gli infermieri dell’Ares 118 del Lazio morti, colpiti dal Covid durante la prima ondata. “Il lavoro di soccorso in strada e nelle case dei pazienti è sempre stato duro, molto. Ma l’emergenza virale ci ha colto del tutto impreparati”. Stefania Onorini è coordinatrice dell'Unità operativa semplice dipartimentale dell’Ares 118 del Lazio. Ha occhi scuri, capelli neri e un’aria sbarazzina ma intensissima, dimostra molto meno dei 60 che dichiara: da lei traspare passione vera, interesse per gli uomini e le donne che incontra, curiosità e una carica comunicativa straordinaria. Lavora sulle ambulanze da oltre vent'anni, dopo essere stata a lungo in un pronto soccorso. Rispondere alle emergenze è la sua competenza vera, è ciò che le piace fare e le piace raccontare. Non per gloriarsi, ma per trasmettere la complessità del lavoro e riflettere su come si potrebbe migliorarlo.
Un lavoro duro che troppo spesso porta colleghi e colleghe a “non farcela più”. E a non farcela più dopo due anni di pandemia sono davvero in molti, non solo nei servizi di emergenza. Anche perché l’ormai nota carenza di personale, dai medici agli infermieri fino agli operatori socio sanitari, rende impossibile la rotazione degli incarichi.
“Noi siamo fortunati, quando siamo in difficoltà l’azienda ci mette a disposizione un servizio di supporto psicologico”, dice la dottoressa che aggiunge: “Troppo spesso però è assai difficile capire che si ha bisogno di aiuto e il fenomeno del burn-out è diffuso. Sarebbe opportuno che un supporto psicologico fosse strutturato e strutturale per tutte e tutti gli operatori sanitari che si trovano in prima linea, non solo per chi lo richiede. Da noi e negli ospedali”.
Il coronavirus si è annunciato nel Lazio esattamente due anni fa. Era fine gennaio quando due turisti cinesi vennero ricoverati all’ospedale Spallanzani perché positivi e ammalati di Covid. Da allora gli addetti al soccorso non si sono più fermati. A fine 2019 i dipendenti dell’Ares 118 erano 1.700, 905 sanitari, 100 amministrativi, 713 inquadrati nel ruolo tecnico (autisti di ambulanze e non solo). Pochi davvero pochi per coprire una regione grande e popolosa come il Lazio. Non è un caso che una quota importante del servizio fosse in appalto a privati convenzionati. Ora in parte è ancora così, ma la situazione è assai migliorata. Per il triennio 2020-2022 la Regione ha definito un piano assunzionale importante per l’internalizzazione del servizio: sono già stati reclutati 125 infermieri e infermiere e 125 autisti e altre assunzioni sono previste per l'anno appena iniziato.
“È una decisione molto positiva – dice Onorini – da diversi punti di vista. Innanzitutto quello dei lavoratori e delle lavoratrici, tutti dipendenti quindi tutti con lo spesso contratto, le stesse tutele, lo stesso salario. E poi anche dal punto di vista dei pazienti perché in questo modo regole, formazione e controllo qualità sono uniformati. Tutti si lavora allo stesso modo”. La scelta di internalizzare e di assumere è positiva, ma si scontra con una difficoltà che appare quasi insormontabile. Non si trova personale, soprattutto medici. “Quelli in emergenza sono lavori poco allettanti. Grande stress, grande responsabilità, poco riconoscimento”.
E siamo al paradosso che, se fino al 2020 le borse di specializzazioni in medicina di urgenza ed emergenza erano poche (per questo non si trovano i medici), nel 2021 sono aumentate ma il bando è andato quasi deserto, perché i giovani laureati non vogliono specializzarsi in questa disciplina: “Un cardiologo o un oculista guadagnano esattamente come un medico di pronto soccorso o di ambulanza, per di più noi non possiamo nemmeno esercitare la libera professione”.
“Questo è un lavoro che si fa solo per passione. Io lo risceglierei senza pensarci, a livello umano mi ha dato moltissimo. Certo, ci sono dei soccorsi che non mi sono più tolta dalla mente e mi hanno cambiata. Cosa sia che spinge a compiere questa scelta non lo so, ma certo gli aspetti positivi hanno superato il resto”. Riflette ad alta voce la dottoressa. È un lavoro particolare quello sulle ambulanze: si fa insieme agli altri, non sempre e non solo sanitari, e la soddisfazione di arrivare in tempo a salvare un paziente è impagabile. Anche se in strada non ci si sente protetto dalla struttura come in pronto soccorso, si è da soli con il gruppo, ma è proprio il gruppo che fa la forza".
Stefania Onorini è sposata e ha una figlia: “Conciliare lavoro e maternità non è stato facile, ha comportato rinunce. Io ho rinunciato al tempo per me, per le mie passioni, per i miei interessi. E al tempo per il riposo. Sono stata una mamma molto presente, lavoravo di notte e di giorno mi occupavo della bimba. Ma è stato bello e intenso. Certo – aggiunge – ho avuto un contesto, un marito che mi hanno consentito tutto ciò”.
Gli occhi di Stefania Onorini si illuminano in egual modo quando parla della figlia e del suo lavoro. Si ombrano solo quando racconta i momenti difficili: “Erano quando tornavo a casa dopo un intervento duro, magari l’unica cosa che desideravo davvero era fare un bel pianto. Invece entrando in casa sorridevo e non raccontavo ciò che avevo vissuto... Non so se ho fatto bene, è stato un po’ come sdoppiarsi”.
Certo è che nonostante i due anni di pandemia la dottoressa Onorini, che oggi coordina anche il lavoro degli altri, rifarebbe la scelta che compì tanti anni fa. La strada per lei è come un'altra casa.