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“Sostenere la tesi che la causa principale della disoccupazione e della mancanza di risposta alla domanda di lavoro degli imprenditori di alcuni settori sia il Reddito di cittadinanza suona come un’offesa all’intelligenza delle persone e in particolare una offesa a tutte quelle famiglie povere e poverissime che beneficiano oggi del sostegno”. Non usa mezzi termini la segretaria confederale della Cgil, Daniela Barbaresi, commentando il dibattito che si è riaperto in questi giorni sul Reddito di cittadinanza. Per la dirigente nazionale della Cgil, “si tratta di una misura contro la povertà che non va affatto cancellata e caso mai va migliorata e rafforzata perché con le norme attuali sono penalizzate alcune figure sociali tra cui i migranti e le famiglie più numerose”.
Ripulire il dibattito
Si tratta anche di fare un po’ di pulizia tra i concetti che vengono utilizzati normalmente nello scontro tra detrattori e sostenitori. La prova dell’infondatezza delle posizioni più distruttive sul Reddito di cittadinanza la ritroviamo facilmente nelle cifre ufficiali sui beneficiari e sull’entità del sostegno economico. Dati che sono stati aggiornati di recente dall’Istat e dall’Anpal, l’agenzia nazionale per l’avviamento al lavoro (c’è tutto sui siti ufficiali). La prima leggenda metropolitana che va smontata riguarda la cosiddetta “sindrome da divano”. Chi attacca il Reddito di cittadinanza (quasi tutto lo schieramento di destra con Giorgia Meloni in testa, in compagnia di Matteo Renzi, che ha ventilato perfino l’ipotesi di un referendum per abolire la legge) descrive i beneficiari come nullafacenti opportunisti che per non perdere l’assegno continuano a dire no alle offerte di lavoro.
Un’immagine retorica e falsa che funziona magari nei talk show, ma che come ha spiegato la sociologa Chiara Saraceno su Repubblica, non ha alcun fondamento empirico. “In primo luogo – scrive Saraceno - va ricordato che solo la metà circa dei componenti delle famiglie beneficiarie del RdC è tenuta a firmare un patto per il lavoro. L'altra metà, composta da minorenni, o adulti non in condizione di essere avviati all'occupazione per malattia, disabilità o pesanti carichi familiari, è tenuta invece ad un patto per l'inclusione sociale”.
Le cifre
Tra chi è tenuto al patto per il lavoro, secondo Anpal circa 878 mila, cioè meno della metà (spesso con qualifiche molto basse), sono definibili come "vicini al mercato del lavoro". Di questi la stragrande maggioranza - 724.494 - ha avuto una qualche esperienza lavorativa in costanza di recezione del RdC. Di questi, 546.598 hanno trovato lavoro dopo aver ottenuto il Reddito, anche se non sempre come esito del patto sottoscritto e della presa in carico da parte di un centro per l'Impiego. Gli altri sono definiti come "molto lontani dal mercato del lavoro", quindi bisognosi di investimenti particolari sul piano sia formativo sia occupazionale.
Combattere le diseguaglianze
“Analizzando i dati senza pregiudizi ideologici – spiega Daniela Barbaresi – ci rendiamo conto del grave peggioramento della situazione sociale del nostro Paese dopo la crisi, la pandemia e una nuova crisi economica. Nelle cifre ufficiali scopriamo uno spaccato fatto di povertà e marginalità. E vediamo anche la grande difficoltà (spesso impossibilità) d'inserimento nel mercato del lavoro. Si tratta quindi di fare chiarezza: da una parte ci sono le politiche del lavoro che si devono basare sul rilancio degli investimenti e di buona e stabile occupazione, facendo dialogare la domanda con l’offerta. Ma dall’altra parte c’è la grande questione sociale della povertà che va affrontata con strumenti specifici come il Reddito di cittadinanza”.
Nelle cifre pubblicate dall’Anpal troviamo migliaia di persone definite “molto lontane dal mercato del lavoro", quindi bisognose d'investimenti particolari sul piano sia formativo sia occupazionale. “Tra questi – di ricorda sempre Chiara Saraceno – ci sono anche 136.131 giovani tra i 18 e i 29 anni che vivono non con i genitori, ma da soli o con altri giovani verosimilmente nelle stesse condizioni. Fanno parte della schiera di Neet, di giovani né in formazione né occupati, di cui l'Italia ha il poco apprezzabile primato in Europa, che spesso hanno lasciato precocemente la scuola. I dati indicano quindi che anche coloro che sono definiti come occupabili in larga misura non sono molto appetibili a chi cerca camerieri, baristi, commesse/i, ovvero persone con un minimo di competenza professionale o comunque con le competenze di base necessarie per acquisirle, per non parlare di figure specializzate come cuochi o operai, appunto, specializzati”.
Se 450 euro vi sembran tanti
L’altro aspetto dell’approccio ideologico al problema riguarda l’entità del sostegno effettivamente erogato. “Stiamo parlando di assegni che variano da 450 euro al mese per nuclei familiari con una singola persona a 700 euro mensili per nuclei famigliari di quattro persone – precisa Barbaresi – se queste cifre sono considerate concorrenziali con il lavoro vuol dire che c’è chi pensa che sia giusto un salario mensile di quelle entità. Caso mai sarebbe necessario, come hanno suggerito anche gli esperti del Comitato scientifico, correggere quei meccanismi pensati per disincentivare l’idea che è meglio un reddito purché sia al lavoro. Ma allora il tema vero riguarda i bassi salari e le tante forme di sfruttamento che si sono consolidate negli anni”.
Una guerra contro i poveri
Quella che si vuole innescare, insomma, più che una guerra tra poveri sembra davvero una guerra contro i poveri. Lo ha detto con parole chiare il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, in occasione dell’assemblea di Bankitalia. “Se gli italiani non accettano certi lavori è perché sono pagati poco, non per colpa del Reddito di cittadinanza. Bonomi ha la fortuna di non aver bisogno del Reddito di cittadinanza, perché se si mettesse nei panni di quelli che senza quel reddito non saprebbero dove sbattere la testa perché sono poveri e senza lavoro forse ragionerebbe in modo diverso”. “Il secondo tema – dice sempre Landini - non è che perché c’è il reddito di cittadinanza non trovano da lavorare, è perché li pagano poco e li sfruttano troppo. Se vogliono affrontare il tema bisogna aumentare i salari e ridurre la precarietà”.