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La crescita di un segmento come quello dei lavoratori digitali e, tra gli altri, dei rider - fenomeno per ora marginale in termini quantitativi ma in continua crescita – può considerarsi l’emblema di un’estremizzazione del concetto di flessibilità dove il lavoratore, e in particolar modo quello giovane, diviene un'appendice dell’organizzazione digitalizzata. Un’appendice il cui unico compito è quello di rispettare alla lettera il dettame dell’algoritmo, così da massimizzare la propria produttività e quella dell’intera piattaforma, eliminando dall’orizzonte qualsivoglia pretesa di riconoscimento del proprio status di lavoratore eterodiretto e dunque subordinato, adeguatezza della retribuzione, tutele nei confronti di rischi sociali e previdenziali, diritto di associazione sindacale.
Per i giovani italiani, non meno problematica è la prospettiva previdenziale. Entrati nel mercato del lavoro in un regime puramente contributivo, i giovani, in buona parte caratterizzati da carriere discontinue, bassi salari e scarsa capacità contributiva hanno molta difficoltà a intravedere all’orizzonte i contorni delle loro prestazioni pensionistiche. E questo non solo perché il godimento del diritto alla pensione è per loro molto lontano nel tempo, ed è reso sempre più tale dal susseguirsi di misure tese all’innalzamento dell’età pensionabile, ma anche perché l’intermittenza e la fragilità delle loro storie contributive li porta ad avere montanti da cui difficilmente sarà possibile tirar fuori pensioni dignitose.
Effetto Covid
La pandemia ha inferto un ulteriore colpo al segmento giovanile del mercato del lavoro italiano. Nel 2020, la flessione dell'occupazione ha interessato in misura marcata le persone in età compresa tra 15 e 34 anni, in particolare durante il lockdown di marzo-aprile. Gli occupati sotto i 34 anni sono diminuiti mediamente di 245mila unità rispetto al 2019, con una riduzione del 4,7%. La classe di età centrale, quella compresa tra 35 e 49 anni, ha subito anch'essa una riduzione consistente, pari al 3,3% rispetto al 2019. Solo gli occupati in età più avanzata, oltre i 50 anni, hanno registrato una variazione positiva nel 2020, peraltro di intensità non trascurabile, e pari a poco meno di 200mila unità (+1,6% rispetto al 2019). Invero, l'aumento dell'occupazione degli over-50 si è osservata in tutte le fasi dell'emergenza pandemica, compreso il periodo di sospensione delle attività economiche tra marzo e aprile, quando è stata registrata la flessione occupazionale più intensa.
Il crollo
Nei due mesi del primo lockdown, marzo-aprile 2020, gli occupati sotto i 35 anni sono diminuiti rispetto mese di febbraio di 280mila unità (-4,6% rispetto allo stesso periodo del 2019), pari al 63,9% della diminuzione complessiva di posti di lavoro registrata nel bimestre. Le classi di età centrali, tra 35 e 49 anni, non hanno avuto miglior fortuna, segnando una flessione di 212mila occupati rispetto a febbraio (3,6% rispetto allo stesso periodo del 2019). Nella fase di riapertura delle attività economiche, tra maggio e settembre, si è registrata una sostanziale stabilità dell'occupazione in tutte le fasce di età. Nell'ultimo trimestre dell'anno, in coincidenza con la seconda fase epidemica, le prime due classi di età, fino a 49 anni, hanno subito, rispetto al periodo maggio-settembre, una flessione ulteriore, per complessivi 104mila occupati, al contrario degli occupati over-50 che hanno visto aumentare il numero di occupati di 64mila unità.
Tutto a termine
Analogamente a quanto osservato per la componente femminile, buona parte della riduzione della componente più giovane dell'occupazione è riconducibile alla quota elevata dei contratti a termine che caratterizza tale segmento della popolazione e che ha marcato sistematicamente la riduzione dell'occupazione nella fase di sospensione delle attività economiche: nel 2019 circa il 30% degli occupati under 35 aveva un rapporto di lavoro a tempo determinato, contro il 13% dell'intera popolazione occupata. Anche in questo caso, si confermano le ipotesi secondo cui il processo di flessibilizzazione del lavoro che ha facilitato progressivamente il ricorso al lavoro temporaneo ha reso strutturalmente fragile la componente giovanile del mercato del lavoro. Ciò è particolarmente vero per quei giovani che sono impiegati in settori a medio-basso valore aggiunto, caratterizzati da un basso tasso di investimenti e di innovazione dove la strategia prevalente è quella basata sul contenimento del costo del lavoro e, dunque, del persistere di rapporti di lavoro temporanei e precari.
Dario Guarascio è ricercatore in Politica Economica presso La Sapienza, Università di Roma