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Fumata nera. È quella uscita dal comignolo della Conferenza Stato-Regioni che avrebbe dovuto licenziare l’Intesa sul Decreto ministeriale 71 (Dm 71) elaborato dal ministero della Salute insieme a quello dell’Economia, sulla riforma della sanità di territorio. Non solo l’intesa non c’è, ma rispetto alla riunione del 30 marzo scorso, sembra essersi fatto un passo indietro.
L’oggetto del contendere, ciò su cui le Regioni non sono d’accordo, non riguarda il testo del Dm e dell’Allegato: “Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel servizio sanitario nazionale”, quanto, detta in parole povere, il nodo delle risorse.
Lo scorso 16 marzo, infatti, era stata esaminata una bozza d'intesa che conteneva alcune condizioni poste dalle Regioni, riferite ai tempi e ai modi di attuazione dei nuovi standard, e soprattutto riferite all’adeguamento dei finanziamenti per coprire la spesa del personale necessario ad attuare il Dm. Il governo, leggi il Mef, nella controproposta del 30 marzo ha però “attenuato” alcune delle condizioni poste dalle Regioni, proprio sulle questioni cruciali della copertura finanziaria e delle assunzioni di personale. L’esito dell’incontro del 13 aprile non poteva che essere, allora, una fumata nera.
La questione è delicata e non riguarda solo la sanità. Come si sa il Pnrr prevede risorse, quelle derivanti dai due fondi di Nex generation Eu (a fondo perduto e in prestito) che devono servire a realizzare infrastrutture materiali e immateriali, ma che non possono essere utilizzate per assunzione di personale. Così come è capitato per gli asili nido, diversi comuni del Sud Italia non hanno presentato i progetti per partecipare ai bandi perché una volta realizzate le aule non avrebbero potuto assumere puericultrici e assistenti. Così per quanto riguarda il punto C1 della Missione 6 “Riforma per lo sviluppo dell’assistenza territoriale”, le Regioni chiedono le risorse per far funzionare le case di comunità e gli ospedali di territorio. Al momento queste risorse non ci sono, anzi rispetto alla ultima legge di bilancio che già prevedeva una riduzione della spesa sanitaria sul Pil per i prossimi anni, nel Def appena varato dal governo, questa riduzione si fa più marcata in favore dell’aumento delle spese militari. Eppure il Covid qualcosa dovrebbe aver insegnato.
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire cosa prevede il Dm 71. Il decreto ripartisce alle Regioni i primi 8 miliardi e 42 milioni destinati alla salute dal Pnrr. Il 41,1% di questa cifra andrà al Sud e serviranno per realizzare la Componente 1: “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale” e la Componente 2: “Innovazione, ricerca digitalizzazione del servizio sanitario nazionale” della missione del Piano.
I quattro articoli di cui si compone stabiliscono che: entro sei mesi le regioni debbano adottare i provvedimenti di programmazione e di riorganizzazione dell’assistenza territoriale in base agli standard dell’allegato documento “Modelli e standard per lo sviluppo dell’At”; che sia attivato un monitoraggio semestrale per verificarne l’attuazione (anche in riferimento al nuovo sistema di garanzia dei Lea); l’attuazione venga considerata adempimento ai fini dell’accesso integrale al finanziamento per le singole Regioni; la riforma sia attuata con risorse del Fondo sanitario nazionale e Pnrr.
“Si tratta di previsioni potenzialmente positive – afferma la Cgil in una nota -, perché spingono le Regioni ad adottare in modo uniforme il nuovo modello per assicurare i Livelli essenziali dell’assistenza territoriale, indispensabile sia per superare l’attuale frammentazione che per organizzare percorsi di convergenza nelle regioni in difficoltà. Tuttavia, la spinta per l’uniformità dei Lea è indebolita in più parti del documento, che lasciano margini d'interpretazione alle singole Regioni ben oltre i confini della legittima e necessaria autonomia organizzativa”.
Non solo si rischia di veder perpetuato, quindi, il diritto diseguale alla salute a seconda di dove si vive, ma - e su questo la coincidenza con le preoccupazioni delle Regioni è chiara – c’è il problema delle risorse. Dice ancora la Confederazione guidata da Maurizio Landini: “Ribadiamo che il livello del finanziamento, sia per il Fondo sanitario nazionale che per i diversi fondi sociali, è inadeguato per assicurare la riorganizzazione e lo sviluppo dell’assistenza socio-sanitaria integrata territoriale. In particolare, resta da rimuovere il tetto di spesa per il personale imposto dalla vigente normativa, per consentire un’adeguata definizione dei fabbisogni formativi e dei relativi piani di assunzione. Senza l’assunzione stabile dei professionisti sanitari e sociali le stesse misure per il potenziamento della rete dei servizi territoriali sono inefficaci, oppure si prelude a un'inaccettabile privatizzazione dell’assistenza”.
Allegato al DM 71 vi è il documento “Modelli e standard per l’assistenza territoriale” che disegna quella che dovrà essere non la sanità territoriale, ma l’assistenza socio-sanitaria del territorio. Definizione non banale perché se ai nomi corrisponderanno le “cose”, lascia presupporre che si partirà dalla presa in carico della persona con tutti i suoi bisogni, di salute e non solo, e che verrà valutata quale dovrà essere la risposta multidisciplinare più adeguata a quegli specifici bisogni. E qui nasce il primo problema. Là dove si realizzerà la presa in carico e valutazione dei bisogni, necessariamente ci dovrà essere non solo personale sanitario ma anche assistenti sociali e sociologi: nelle previsioni del documento i primi sono troppo pochi, i secondi non ci sono. Dice, a questo proposito, la nota di Corso di Italia: “Le pur condivisibili affermazioni e previsioni per alimentare l’integrazione fra sanità e sociale, non sono sostenute da adeguate misure riferite ai professionisti del sociale”. E aggiunge: “Negli standard per il personale, rispetto alle versioni precedenti, accanto al numero di infermieri di comunità, è stato prevista la presenza di assistenti sociali e personale socio-sanitario e amministrativo, ma deve essere prevista la presenza di operatori sociali e sanitari componenti l’equipe multiprofessionale, indispensabile per attuare le norme sull’integrazione”.
L’architettura organizzativa della nuova assistenza è ambiziosa. Avrà come baricentro il distretto socio-sanitario (uno ogni 100 mila abitanti): “Scelta positiva” afferma la Cgil che però aggiunge. “Si tratta di una struttura pubblica che programma, produce e valuta le attività, avvalendosi anche di professionisti e strutture accreditate (come peraltro già accade). Nel documento, però, la definizione di distretto come “committente” (che eroga servizi in forma diretta o indiretta) rischia di preludere a una esternalizzazione di attività assistenziali che devono invece essere “prodotte” ordinariamente dai professionisti e dai servizi pubblici che fanno parte del distretto”.
Nel distretto, che dovrà coordinare la potenziata assistenza domiciliare a cui verranno destinati oltre due miliardi con “l’obiettivo di aumentare il volume delle prestazioni rese fino a prendere in carico, entro la prima metà del 2026, il 10% della popolazione di età superiore ai 65 anni rispetto all’attuale 5%”. Nasceranno 600 centrali operative territoriale (280 milioni), 1350 Case della Comunità (2 miliardi), 400 Ospedali di comunità (1 miliardo). Tutto questo dovrà andare a regime entro il 2026 con precise e scandite tappe di avvicinamento. A cominciare dall’approvazione dell’intesa Stato-Regione e poi dalla presentazione dei Piani regionali territoriali che dovranno essere approvati dal ministero dalla Salute.
Detta così sembra facile. In realtà non lo è affatto e nelle pieghe del provvedimento si nascondono, nemmeno troppo bene, problemi. Ruotano tutti attorno a un tema: il ruolo del pubblico e i finanziamenti. Se da un lato, infatti si fissano i Lea e gli standard di assistenza, dall’altro non si tolgono i tetti di spesa per il personale il risultato è che difficilmente si potranno raggiungere gli standard di assistenza previsti. E per questa via si apre la porta alla sanità in convenzione. Questo ragionamento vale innanzitutto per l’assistenza domiciliare, che rischia davvero di diventare la porta di ingresso ai privati. A suonare il chi va là è la Cgil: “Tutte le strutture e le attività finanziate dalle risorse pubbliche ordinarie e del Pnrr comportano che le strutture e le attività in esse svolte debbano avere ordinariamente natura pubblica” ammonisce la Confederazione, che aggiunge: “L’assistenza domiciliare Integrata è il pilastro dell’assistenza territoriale e il principale investimento dello stesso Pnrr nella Missione 6C1 (4 miliardi). Il documento, al contrario di quanto accade per gli ospedali di comunità ben più dettagliati, è del tutto lacunoso sugli standard di personale. Non solo, prefigura l’affidamento del servizio a soggetti accreditati privati”.
E la stessa questione riguarda i medici di medicina generale. Come si sa oggi operano in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale, e stante all’allegato al Dm 71 così sarà anche in futuro. Continueranno ad avere i propri studi e presteranno alcune ore della propria attività nelle case di Comunità. La Cgil e la Fp Cgil da tempo chiedono che tutto ciò venga superato, che i Mmg vengano assunti direttamente dal Ssn, almeno quelli nuovi e quelli che andranno a operare, appunto nelle case di comunità. Al momento dal ministero non vi è risposta. E la preoccupazione è che le singole Regioni possano organizzarsi in maniera differente, infliggendo un ulteriore colpo all’unicità del diritto alla salute garantita dal Ssn su tutto il territorio nazionale.
"Quella del Dm 71 e dell'allegato non è una riforma - afferma Michele Vannini, segretario nazionale della Fp Cgil -: la prima cosa che va chiarita è questa. Stiamo parlando di un adempimento collegato al Pnrr sul quale, pur condividendo l'obiettivo, sull'applicazione nutriamo delle preoccupazioni serie".
"La nostra prima preoccupazione - aggiunge il dirigente sindacale - riguarda il personale perché non vediamo le risorse adeguate per garantire le assunzioni necessarie per far sì che dopo il 2026 tutte le strutture previste siano piene di personale pubblico. La seconda preoccupazione riguarda il fatto che il documento è pieno di condizionali, non è impositivo e quindi lascia gli spazi al fatto che ci sia un'applicazione disomogenea sui diversi territori che potrebbe allargare le disparità fra le varie Regioni, di cui abbiamo già pagato un prezzo salato durante la pandemia. E poi, noi riteniamo sarebbe di gran lunga preferibile e necessario prevedere che i medici di medicina generale fossero alle dipendenze del servizio sanitario, almeno in quota parte". Ma non finisce qui, Vannini infatti sostiene: "Il documento, anche per ammissione del ministero, è molto parziale. Mancano una serie di questioni fondamentali, dalla salute mentale alla medicina di genere, senza le quali la sanità di territorio risulta monca".
Le risorse europee destinate a garantire e ampliare il diritto alla salute e il benessere dei cittadini e delle cittadine sono consistenti: vanno utilizzati bene, nel rispetto della Costituzione.