Partiamo da una valutazione generale. Oltre 200 miliardi per affrontare la ripartenza dell’Italia, le missioni sono indicate dall’Europa ma lo svolgimento è nostro. Il Piano italiano ti convince pienamente? 

 

 

 

No, nel suo insieme non completamente. Il Pnrr contiene punti positivi, ma anche molti punti o negativi o che lasciano qualche perplessità. È la prima volta che l’Italia ha tanti fondi a disposizione, tra le risorse del Pnrr e quelle appostate in altri progetti europei si arriva quasi a 300 miliardi. Somma davvero considerevole, utilissima a far ripartire il Paese. Come saranno impiegate? Certamente quello che proprio non va è che nel Pnrr non c'è traccia di un piano per l’occupazione. Non soltanto per quel che riguarda i servizi e la sanità, ma in generale. Non solo, ma le scarsissimo risorse destinate alle assunzioni sono  - ovviamente – a scadenza: si potranno fare solo contratti a tempo determinato fino al 2026. Abbiamo, invece, bisogno di creare lavoro, innanzitutto per giovani e donne, di qualità. 

La Missione 5 e Missione 6 contengono i progetti che afferiscono al Pilastro sociale europeo. Sono anche quelle che dovrebbero dare vita ad un nuovo patto sociale per ricostruire il legame tra welfare e cittadinanza. È davvero questo l’obiettivo dei due capitoli del Pnrr o sono solo la somma di progetti? 

Il Piano presentato dal governo Draghi e approvato dall’Europa non contiene un nuovo patto sociale che ricostruisca il legame tra welfare e cittadini e cittadine. Soprattutto la Missione 5 è la più deludente. Per due ragioni. Da un lato è una somma di progetti su fronti troppo diversi tra loro. La Missione intitolata “Inclusione e Coesione” spazia infatti dalle politiche attive per il lavoro a donne e giovani, passando per disabilità famiglie e Terzo settore. La seconda ragione è che le risorse destinate ai servizi sociali sono davvero troppo scarse, e soprattutto manca un'idea precisa e compiuta di come riorganizzare i servizi alla persona nel nostro Paese. Quindi sommatoria di progetti, alcuni anche positivi, senza un'idea di quadro generale e in ogni caso poche risorse. Insomma, l’obiettivo di questa missione sarebbe quello di ridurre i divari: quelli di genere, quelli tra le generazioni, quelli tra inclusi ed esclusi, e quelli territoriali. Così non credo sia un obiettivo raggiungibile.  

Entriamo nel merito e andiamo per ordine. La Missione 5 contiene il capitolo “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore”. Un miliardo e mezzo circa sono destinati a servizi sociali, disabilità e marginalità sociale. Troppo poco? 

Non solo è molto poco, ma si fa anche confusione. Perché mettere insieme “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore”? Asili nido, povertà, sostegno alla genitorialità ecc. Insomma, la sensazione che si ha è che non ci sia un progetto compiuto di ricostruzione del welfare, ma una sorta di elenco di problemi con scarsissime risorse e un’investitura al Terzo settore come sostitutivo del pubblico. I capitoli della missione richiedono interventi e interventi diversi. Disabilità, disagio sociale, povertà  - ad esempio –hanno bisogno di strumenti differenti, di modalità di intervento appropriate e di risorse adeguate a dare le risposte necessarie. Non mi pare che nel Piano se ne tenga conto.  Non solo, il fatto che le risorse siano così scarse fa correre il rischio di veder litigare i diversi soggetti per accaparrarsele. Per quanto riguarda, poi, il Terzo settore la situazione è preoccupante: vi sono risorse destinate al comparto, ma non è chiaro come saranno utilizzate. Si tratta di una realtà importante, svolge un ruolo fondamentale in determinati ambiti, ma bisogna sapere con quali convenzioni interviene, come si struttura, quali sono i vincoli che gli si dà. Altrimenti si ha la sensazione che sia il soggetto che deve sostituire i servizi pubblici. Per quanto ci riguarda non siamo assolutamente d’accordo. È lo Stato che deve rispondere ai bisogni dei cittadini e delle cittadine.  

Per ridurre le diseguaglianze sociali e territoriali non bisognerebbe partire dalla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni? Non mi pare ve ne sia traccia nel Pnrr.

 

 

 

Da anni affermiamo che livelli essenziali delle prestazioni sono il minimo sindacale da cui partire quando si parla di welfare. Sono indispensabili per definire il principio generale di accessibilità ai servizi, per rendere esigibili i diritti per i cittadini e per le cittadine, a prescindere da dove si risiede e a quale “categoria” si appartiene. Secondo me è grave che ancora una volta non vengano definiti i Lep come vincolo da cui partire. Per di più, anche se non riguarda il Pnrr se non in maniera tangenziale, sento tornare la voglia di parlare di autonomia differenziata. Ma non si può parlare di nessuna autonomia se non si parte dalla definizione dei diritti che i livelli essenziali delle prestazioni devono garantire ai cittadini e alle cittadine. Insomma, questa è una grave omissione del Piano. 

Se pensiamo che in Italia vi sono oltre due milioni di persone non autosufficienti, e non tutti anziani, e che proprio nei giorni scorsi l’Istat ha accertato un aumento considerevole della povertà, sia assoluta che relativa, la sensazione che si ha è che sia troppo scarsa l’attenzione rivolta a queste “fragilità”.

Per quanto riguarda la non autosufficienza, nel piano è indicato l’impegno a varare, finalmente, una legge quadro. Ma i tempi previsti sono davvero troppo lunghi. Lo abbiamo già chiesto al Governo: è necessario varare il testo entro l’anno in corso, altrimenti il rischio è che non se ne faccia nulla. Occorre ricordare, però, che i disabili non sono tutti e tutte anziani e che molto ci sarebbe da fare. Pensiamo alle nostre città, ad esempio: sarebbe necessario trasformarle per rendere davvero inclusive, servirebbero infrastrutture materiali e sociali e quindi risorse adeguate. Ma così non è. Come nulla è previsto per l‘inclusione lavorativa delle persone diversamente abili. Se poi vogliamo parlare di anziani, è positiva l’indicazione della Missione 5 quando afferma che occorre l’integrazione tra “sociale e sanitario”. Giusto: è necessario che i servizi prendano in carico la persona e in modo coordinato creino per lei il progetto migliore di assistenza, possibilmente nel proprio domicilio, nei casi necessari in strutture dedicate. Al momento però quelli indicati nel Pnrr sono solo titoli, aspettiamo lo svolgimento. Lo stesso ragionamento vale per quanto riguarda la povertà. Manca totalmente l’idea che per far uscire uomini, donne e bambini da questa condizione occorre una presa in carico complessiva da parte dei servizi sociali e non solo sostegni economici. Probabilmente non tutto può trovare risposte nel Piano, ma dovrebbe esserci un'idea con cui si costruisce il nuovo welfare per poter implementarla con risorse e progetti ordinari.

Passiamo alla sanità. Per ragionare occorre partire da due dati: gli oltre 37 miliardi di tagli al settore degli ultimi 10 anni e il fallimento della rete territoriale che praticamente è inesistente. Quale è la tua valutazione generale su quanto previsto nel Pnrr per la salute?

 

 

 

Purtroppo la prima considerazione da fare è che anche in questo caso le risorse sono proprio poche. Se si prendono a riferimento i documenti prodotti dal ministero della Salute prima che il Pnrr fosse in Europa, si scopre che lì sono indicati e definiti progetti per circa 30 miliardi a fronte dei 20 attualmente previsti. Peraltro si arriva a questa cifra sommando le risorse del Piano, quelle derivanti da altri progetti europei e alcune ordinarie del Ssn. È evidente che se si vuol davvero garantire il diritto alla salute in tutto il Paese, 20 miliardi sono insufficienti. Questa è la prima considerazione generale. Poi, sicuramente la Missione 6 prevede alcuni progetti molto interessanti e, soprattutto, l’idea sembrerebbe quella di ripartire dai capisaldi della legge del 1978: prevenzione, cura e riabilitazione. Sembra affermarsi l’idea che non si debba parlare di sanità ma di salute. Non a caso questo è il titolo della Missione. Ma il diritto alla salute di cittadini e cittadine significa occuparsi di ambiente, alimentazione, benessere psicofisico, e anche di salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro. Significa integrare davvero i servizi sanitari con quelli sociali e allora non vorrei che lo svolgimento differisse dai principi, proprio per la scarsità di risorse.

Veniamo ai singoli progetti. Sette miliardi sono quelli destinati alla riorganizzazione del territorio. Ma prima ancora di capire se sono sufficienti, ci dici se a tuo parere il modello organizzativo delineato dal Piano ti convince?

 

 

 

Sicuramente un grande merito del ministro Speranza è aver capito che il fulcro della riorganizzazione del sistema sanitario nazionale deve essere il territorio. L’idea di partire dalle case della salute come centro polifunzionale da cui attivare la presa in carico delle persone, potenziare la domiciliarità e pensare a piccoli ospedali di comunità non solo è scelta condivisibile, ma rievoca le proposte che più volte abbiamo, insieme a Cisl e Uil, sottoposte ai diversi governi che si sono succeduti negli anni. Ovviamente tra il dire e il fare c’è molta distanza. A cominciare da scelte importanti che andrebbero compiute come quella che tutti gli operatori sanitari dovrebbero essere dipendenti del Ssn, anche i medici di medicina generale, anzi forse a cominciare da loro, che come si sa oggi invece sono liberi professionisti che operano in regime di convenzione. E ancora, territorio significa anche tornare a puntare sulla prevenzione  e sulla salute mentale. Altro grande merito del ministro Speranza è aver colto che dalla pandemia non solo usciremo più poveri e precari, ma anche più fragili dal punto di vista psicologico. Senza i servizi territoriali è impensabile trovare le risposte adeguate. Oltre a tutto ciò va organizzata la cosiddetta continuità assistenziale: quando si esce dall’ospedale come e da chi si viene seguiti per la convalescenza? Infine, altra questione rilevantissima, torno a dirlo, è l’integrazione tra sociale e sanitario. Se non si parte da qui difficilmente si riesce a garantire il diritto alla salute come ho provato a definirlo prima. E di tutto questo nel Pnrr al massimo ci sono titoli: nulla su come si intende realizzare questi enunciati. Ciò è davvero preoccupante. Per questa ragione abbiamo posto più volte al Governo l’esigenza di un confronto preventivo e di una governance  - a tutti i livelli - che coinvolga anche Cgil Cisl e Uil. Purtroppo, proprio su questa importante questione, il governo non dà risposte. È evidente, in conclusione, che sette miliardi sono insufficienti.

Dalle tue parole emerge un'esigenza che la Cgil pone con forza: quella che riguarda gli uomini e le donne, il personale. Di assunzioni, se non ho capito male, si parla solo a tempo determinato, a scadenza della realizzazione del Piano. È sufficiente?

Il punto in assoluto più debole, la nostra prima critica – e non solo in ordine di tempo – al Pnrr è proprio che manca l’idea di un piano per il lavoro: Non si parla mai di creare buona occupazione. Ora, sappiamo tutti che con le risorse di Nex Generation Eu non si possono pagare stipendi, ma la questione dell’occupazione non può essere espunta dall’orizzonte. Per quanto riguarda ciò di cui ci occupiamo, poi, la pandemia ha reso evidente un problema: la carenza di personale delle professioni sanitarie. Mancano medici, infermiere e infermieri, tecnici di laboratori eccetera. Quelli che ci sono hanno un'età media avanzata e anche questo è un problema. Allora, se non si parte dal piano di assunzioni tutti i ragionamenti compiuti fin qui, dal territorio alla domiciliarità, non stanno in piedi. Non è immaginabile nessun rilancio del Ssn senza investire negli uomini e nelle donne che lo compongono. E senza la formazione, del personale in servizio e di quello che bisogna assumere nei prossimi anni. Occorre, quindi, stringere un rapporto più stretto tra università e ministero della Salute. Insomma, per costruire la sanità del futuro occorre tenere presente due capisaldi che erano già tali nel 1978: la centralità del pubblico, il solo che può garantire l’universalità del servizio, e il ruolo di medici, infermieri, assistenti sociali, tecnici. Allora, bene le risorse europee ma occorre fin da subito pensare che il finanziamento ordinario del sistema deve essere adeguato alla sfida, altrimenti non ce la faremo.

di Simona Caleo