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Tra i 27 Paesi europei solo Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia non hanno ancora un salario minimo legale. Secondo i dati Eurostat riferiti all’inizio di quest’anno 13 Stati membri nell’est e nel sud dell’Ue avevano minimi inferiori a 1.000 euro al mese e sei sopra i 1.500 euro. Il minimo più alto, quello del Lussemburgo, supera i 2.200 euro ed è quasi sette volte superiore a quello più basso, i 332 euro della Bulgaria. Ovviamente per capire le disparità reali occorre tenere conto delle differenze nel livello dei prezzi. L'entità del salario minimo, negli Stati in cui esiste, è piuttosto variabile. Il range va dai 332 euro al mese in Bulgaria ai 2.202 in Lussemburgo. Ma vediamo meglio alcuni esempi nazionali che differiscono o somigliano all'Italia.
Il caso spagnolo
Il governo spagnolo e i due principali sindacati del Paese, Ugt e Comisiones Obreras, hanno stretto un patto per fissare il salario minimo di quest’anno a 1.000 euro al mese (per 14 mensilità), con un aumento di 35 euro rispetto a quello del 2021. La misura interessa due milioni di lavoratori spagnoli. Contrarie le due principali associazioni degli imprenditori spagnoli, Ceoe e Cepyme. Gli industriali spagnoli ritengono che non è il momento di fissare un aumento del salario minimo come quello stabilito dal governo, visto il contesto economico d'incertezza, in particolare in alcuni settori. Presentando l’accordo, la ministra spagnola del lavoro Yolanda Diaz, che è anche vicepremier, ha parlato invece di “un risultato molto importante”. “Ancora una volta, anche se non eravamo legalmente obbligati, abbiamo voluto propiziare il dialogo sociale - ha dichiarato Díaz - puntiamo su un modello di società, d'impresa e di mercato del lavoro che non siano basati su salari bassi”.
Gli scatti francesi
L’esecutivo guidato dal presidente Macron è intervenuto in due rate sulla questione del salario minimo dopo lo shock della pandemia. Dal primo gennaio 2022, il tasso orario del salario minimo legale in Francia (Smic) è stato fissato a 10,57 euro, comportando un aumento dello 0,9 per cento. Si è stabilito che la retribuzione dei dipendenti distaccati non dovrà in nessun caso essere inferiore a questo importo; tuttavia è opportuno ricordare che, in base alle disposizioni introdotte dalla direttiva 957/2018, dev’essere comunque effettuato un allineamento alle condizioni economiche del contratto collettivo equivalente applicabile. In un secondo step il nuovo aggiustamento che è avvenuto lo scorso aprile. A partire dal primo maggio il salario minimo dei francesi è aumentati di 33 euro. Il compenso lordo arriverà quindi a 1.645,58 euro, mentre il netto passerà da 1.269 a 1.302,64 euro.
Il minimo tedesco
Il salario minimo legale è stato introdotto nel 2015, in un momento in cui la copertura della contrattazione collettiva era scesa ad appena il 50 per cento dei lavoratori, dopo una continua e costante diminuzione iniziata con la riunificazione tedesca. Il sindacato si è indebolito in questi anni, con un tasso di adesione sceso intorno al 18 per cento, complice anche la grande diffusione dei mini-jobs e, più generale, di quel processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro varate negli anni 2003-2005. In Germania, a differenza dell’Italia, esiste comunque sin dal 1949 un meccanismo per l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi che passa per un atto del ministro del Lavoro. Uno strumento che è rimasto però quasi sempre nel cassetto, cosa che ha determinato un continuo deterioramento dei livelli salariali. Secondo vari studi, risulta che la Germania a metà del decennio scorso presentava una delle proporzioni di lavoratori poveri più alta d’Europa: circa un lavoratore su quattro aveva una retribuzione al di sotto della soglia del 60 per cento del salario mediano, con disparità salariali macroscopiche tra lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva e l’altra metà invece non inclusi. Secondo alcuni giuristi, a sette anni di distanza dall’introduzione del salario minimo legale si possono già trarre alcune indicazioni utili. La più importante riguarda il fatto che c’è stato effettivamente un immediato innalzamento dei salari che ha riguardato circa il 15 per cento dei lavoratori tedeschi, con una conseguente riduzione (seppur parziale) delle disuguaglianze retributive.
Modello british-Brexit
La crisi della contrattazione collettiva inglese, finita sotto l’assalto nel periodo 1979-1997 delle aggressive politiche anti-sindacali poste in essere dai governi Thatcher e Major, è ormai evidente. Si contratta quasi esclusivamente a livello aziendale e a macchia di leopardo, con una copertura complessiva che oggi, nello Stato della Brexit, non supera il 30 per cento. Per quanto riguarda l’istituto del salario minimo si deve ricordare che esso ha una storia molto antica. Risale al 1909 il primo prototipo di legislazione sui minimi salariali dell’era moderna. Un sistema che ha visto protagonisti organi tripartiti denominati Trade Boards, e successivamente Wage Councils. Spettava a loro la fissazione, con decisione che poteva acquisire forza di legge, dei minimi salariali e delle tariffe di cottimo nei settori dove le retribuzioni erano particolarmente inadeguate e la contrattazione collettiva non era in grado di offrire reale tutela ai lavoratori. Una pratica che venne attaccata dalle politiche neoliberiste dei governi conservatori: i Wage Councils vennero aboliti nel 1993. Nel 1998 il governo laburista, con a capo Tony Blair, approvò poi il National Minimum Wage Act (NMW). Veniva per questa via introdotto un salario minimo legale universale, con un campo di applicazione molto ampio. La misura è, infatti, destinata non solo ai lavoratori subordinati, ma anche a coloro che rientrano nella più ampia categoria dei “workers”. “In un modello, dove la contrattazione collettiva ha ormai una scarsa rilevanza – scrive Emanuele Menegatti, docente di diritto del lavoro nell'Università di Bologna - l’introduzione di un salario minimo ha contribuito a supportare il reddito dei lavoratori più poveri (circa il 10 per cento della forza lavoro britannica, con punte del 30 per cento in alcuni settori), riducendo le disuguaglianze retributive, anche tra uomo e donna. Il tutto senza nessuna evidenza di danni all’occupazione o alle imprese”.
L'autonomia svedese
La Svezia ha alcune similitudini con l’Italia: non ha un salario minimo legale, né una contrattazione collettiva munita di efficacia erga omnes, mentre nel sindacato vige un’opposizione di principio verso un’interferenza del legislatore sulla regolazione delle retribuzioni. In Italia dal punto di vista della cultura sindacale è la Cisl che ha sempre puntato sul primato esclusivo della contrattazione opponendosi a interventi troppo invasivi dello Stato e della politica. In Svezia questa cultura si manifesta nell’ambito di un sistema di relazioni industriali autonomo per eccellenza, fondato su un alto tasso di densità sindacale (circa il 70 per cento) e da una parallela significativa organizzazione dei datori di lavoro (circa l’87 per cento è iscritto a un’associazione datoriale). La copertura della contrattazione collettiva è stimata intorno al 90 per cento, pur in assenza di un meccanismo di estensione della sua efficacia. L’alto grado di organizzazione delle relazioni industriali svedesi coinvolge anche la fissazione dei minimi salariali. E sono state queste le motivazioni che hanno spinto all’opposizione i sindacati svedesi, da sempre contrari all’introduzione di una misura legale di salario minimo, nell’ambito di una generale avversione di principio verso interventi eteronomi sulle regole del lavoro.