Mercato, accordi commerciali, liberalizzazioni sono tra le componenti del processo di globalizzazione che hanno radicalizzato l’interdipendenza tra i paesi. Ne abbiamo avuto prova durante la pandemia, abbiamo avuto conferma dei problemi, della dimensioni delle diseguaglianze, abbiamo potuto misurare i limiti della divisione internazionale del lavoro: le catene lunghe di fornitura, la ricerca del minor costo del lavoro; in questo quadro, è necessario domandarsi se la digitalizzazione accompagna la globalizzazione. Sicuramente si, anzi ha probabilmente un effetto di crescita dell’interdipendenza; può far pendere la bilancia verso equilibri o squilibri diversi dagli attuali.

Se ha un effetto di accelerazione, questa non è solo per la diffusione della tecnologia digitale e la sua pervasività, ma anche per aspetti meno valutati, il parziale cambio di materie prime necessarie, la tecnologia utilizza fonti tradizionali di elettricità, ma i suoi prodotti materiali si nutrono delle nuove materie prime, della componente immateriale dei dati in tanta parte prodotti dall’utilizzo e dagli utilizzatori.

Va sottolineato, in questo scenario, il ruolo diretto delle politiche delle big tech, che si configurano sempre più come poteri autonomi, che sfuggono ai confini, scelgono i luoghi dove hanno maggiori convenienze fiscali; la loro forza è data dall’essere i possessori, i progettatori e gli attuatori delle applicazioni tecnologiche, e per questo “pretendono” la proprietà dei dati, che a differenza delle applicazioni sono in tanta parte frutto dell’interazione di utenti e consumatori (non a caso si parla di estrazione dei dati). Le loro scelte tecnologiche pervadono e condizionano sempre più le nostre vite, il lavoro e le sue condizioni.

Se è univoco l’obiettivo di incrementare i processi di digitalizzazione in ogni paese, in ogni settore, non sono univoche le risposte politiche dei governi, non sono univoci gli orientamenti. Pur scontando la semplificazione, proviamo ad esaminare alcune differenze: innanzitutto non tutti considerano neutra la tecnologia, non tutti danno per scontato che qualunque innovazione sia utile, giusta e vada perseguita. Grande e significativa differenza vi è tra il definire i dati un bene comune e il considerarli proprietà privata degli estrattori. Queste distanze sono importanti in termini di posizionamento, ma soprattutto perché ne derivano le scelte di fare o non fare delle regole, sul proporre o meno vincoli all’utilizzo delle tecnologie.

L’Europa si interroga sul tema dell’autonomia tecnologica, ma non è il solo attore dello scacchiere mondiale che si propone questo obiettivo. La scelta europea di un regolamento sulla protezione dei dati, noto come privacy, non ha corrispettivo negli Usa, né tanto meno in Cina dove, per esempio, il riconoscimento facciale è strumento abusato nelle politiche di governo. L'Unione europea ha recentemente avviato la discussione su nuovi regolamenti dello spazio digitale affrontando i servizi, il mercato e il governo dei dati; regolamenti che si propongono di andare oltre le norme in essere e di intervenire, tra l’altro, sulla trasparenza dell’algoritmo, sulla possibilità di accedere alle formule. I termini proposti e le scelte conseguenti sono interessanti, e importanti anche per noi che rivendichiamo di contrattare l’algoritmo quindi di conoscerlo, di avere accesso alle formule, di poter condizionare gli input.

Proprio la stessa utilità per la contrattazione di alcune scelte dei regolamenti proposti, rende più evidente l’assenza di un’attenzione al tema lavoro e condizioni di lavoro nei nuovi ambienti digitali. Se gli Usa non sembrano intenzionati a porre problemi di regolazione, è la nuova presidenza statunitense a mettere sul tavolo del G20 la discussione sulla tassazione delle big company.

Questo rapido excursus non ci distrae dal nostro obiettivo, quello della contrattazione e del migliorare condizioni e qualità del lavoro, ma ci sollecita, invece, ad alzare lo sguardo anche fuori di noi. Conoscere i processi ed i prodotti del digitale ci fa confrontare con l’interpretazione, la traduzione delle conseguenze sul lavoro di ogni singolo anello della catena di digitalizzazione. Ci permette di valutare se ci sono strumenti ed esperienze utili, siano le regole europee o la possibilità e necessità di alleanze e azioni sindacali sovranazionali. L’esperienza Amazon ne è un esempio.

E’ una vera sfida, un compito non semplice, basti pensare a come nella digitalizzazione, con la capacità della tecnologia di autoinnovarsi rapidamente, la stessa definizione di lavoro abbia bisogno di essere fortemente ancorata; si assottiglia il confine tra produttore e utilizzatore di tecnologia, e lo stesso utilizzo della tecnologia è, spesso, produzione di dati, ma non solo: è allenamento, insegnamento alle macchine, ai programmi, all’intelligenza artificiale. Lo è per un utente, lo è per il lavoratore o la lavoratrice.

Da queste considerazioni nasce l’idea e la struttura di questo manuale sull’intelligenza artificiale, che percorre le differenti tecnologie, le norme, le esperienze nazionali e internazionali ponendosi sempre la domanda - essenziale per il nostro sindacato -: cosa e come contrattare.

L’abbiamo definito la cassetta degli attrezzi 4.0, una cassetta con lo sguardo dentro e fuori dai confini: per essere attrezzati, per contrattare sempre al meglio, perché il lavoro cambia e continuerà a cambiare ma non cambiano gli obiettivi di sicurezza, libertà e dignità del lavoro. 

Susanna Camusso è responsabile Politiche di Genere e Politiche Europee e Internazionali della Cgil


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IA. Lavorare con l'Intelligenza artificiale, Futura Ediesse, maggio 2021:
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