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All’indomani del cosiddetto decreto “Chiudi Italia”, diversi centri studio e istituti di ricerca – tra cui Fondazione Di Vittorio, Ires Emilia-Romagna e Fondazione Sabattini – si sono cimentati nella stima della platea di lavoratori essenziali sulla base del famigerato allegato con le 80 attività economiche (Ateco) da mantenere attive in questa fase di emergenza sanitaria, a cui vanno aggiunte difesa e aerospazio, oltre quelle già definite nel Dpcm dell’11 marzo scorso, relative principalmente al commercio al dettaglio. Le prime difficoltà di calcolo risiedono nella disponibilità di dati specifici e aggiornati. La classificazione Ateco prevede fino a 1.224 sottocategorie con codici fino a sei cifre, alcune delle quali presenti nell’allegato al Dpcm del 22 marzo 2020. Da qui, la fatica di estrapolare dati recenti per risalire alle unità produttive e agli addetti.
A soccorso di tale “impresa”, è giunto proprio l’Istat, che giusto ieri mattina, in occasione dell’audizione sul disegno di legge di conversione del cosiddetto decreto “Cura Italia”, ha elaborato una stima dei lavoratori nei settori interessati dai Dpcm dell’11 e del 22 marzo 2020. Le fonti utilizzate sono due: il Registro esteso sulle imprese “Frame” del solo settore privato (aggiornata al 2017), utile per comprendere il peso delle imprese su fatturato e occupazione nelle diverse Regioni o nei singoli comparti (ma non sottocategorie), per il quale il 52,9 per cento degli addetti sarebbero presenti nelle imprese essenziali; l’Indagine sulle Forze di lavoro (per l’anno 2019), che aiuta a conoscere il numero degli occupati per posizione lavorativa, macrosettore di attività (compresa la P.A.), sesso, classe di età e ripartizione geografica, per la quale il 66,1 per cento degli addetti sarebbero considerati essenziali. I due database Istat non si parlano, ma portano a una stima analoga del numero di lavoratori “sospesi” dal Dpcm del 22 marzo: circa 7,9 milioni di lavoratori.
Va precisato che entrambi i database dell’Istituto sono antecedenti alla crisi sanitaria e fotografano le attività economiche a regime. Entrambe non riportano un quadro numerico esaustivo e non illustrano una mappatura esatta dei lavoratori essenziali nelle singole filiere del citato allegato. Inoltre, restano in piedi molti limiti di calcolo, che lo stesso Istat non dimentica di precisare: non si distingue tra quanti possono lavorare in smart working e quanti devono invece obbligatoriamente recarsi sul luogo di lavoro. Senza contare poi cessazioni di imprese, decisioni arbitrarie, ferie (obbligatorie), congedi, ammortizzatori sociali e malattie.
Apprese le fonti e consapevoli dei suddetti limiti, si può comunque tentare una stima del ventaglio di lavoratori che sono passati da essenziali a “sospesi” per effetto del confronto di Cgil, Cisl e Uil col governo e della conseguente ridefinizione dell’allegato al Dpcm con decreto Mise del 25 marzo 2020. Utilizzando anche altri database Istat e, in particolare, i rilievi del Censimento dell’industria e dei servizi ponderati con i più recenti dati dei Conti nazionali, i lavoratori meno essenziali potrebbero essere ricondotti attorno ai 240 mila dipendenti dell'industria e dei servizi e, complessivamente, a oltre 400 mila occupati (considerando anche indotto e autonomi). Naturalmente, si tratta di inferenze statistiche e, perciò, di approssimazioni, che però permettono di cogliere un risultato significativo.
Riccardo Sanna, coordinatore dell'area politiche dello sviluppo della Cgil