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Dopo sette anni, Uber Eats chiude. Il 15 giugno la multinazionale del delivery ha annunciato la dismissione dell’attività. Aperta la procedura di licenziamento per i 49 dipendenti diretti, perlopiù concentrati nella sede di Milano, cui si sommano circa 3.800 rider (inquadrati come collaboratori occasioni o autonomi con partita Iva) che improvvisamente hanno perso il loro (pur magro) reddito.
I sindacati stigmatizzano una “decisione presa per meri interessi economici”, chiedendo interventi immediati per tutelare sia i lavoratori dipendenti, mediante cassa integrazione straordinaria (ma la società ha già dichiarato di non voler ricorrere agli ammortizzatori sociali) e adeguati percorsi di ricollocazione, sia le migliaia di rider assoldati con rapporti di lavoro precari, che ora si trovano senza alcuna protezione.
La trattativa appare molto difficile. I legali di Uber Eats hanno infatti comunicato la volontà di incontrare unicamente le federazioni del terziario per i soli dipendenti diretti, rendendosi indisponibili a confrontarsi con le federazioni che rappresentano i rider. Una decisione fortemente contestata da tutti i sindacati, che la giudicano “molto grave, nonché lesiva dei diritti dei lavoratori e delle prerogative sindacali”.
Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs, Nidil Cgil, Felsa Cisl e Uiltemp Uil ritengono infatti che “Uber Eats debba assumersi la responsabilità delle sue decisioni anche nei confronti di tutte le persone che da anni lavorano come rider. Chi fino a oggi ha garantito all’azienda incassi e la possibilità di proseguire l’attività commerciale, oltre a venir licenziato, si vede negata ogni possibilità di confronto”.
È utile ricordare, infine, che Uber Eats aveva cominciato la sua attività di delivery in Italia nel 2016, partendo inizialmente con Milano per poi arrivare in 60 città. Attualmente occupa una quota di mercato minoritaria, stimata a livello nazionale intorno al 6%, con una posizione dominante soltanto a Napoli.
La posizione dell’azienda
“In questi anni, purtroppo, non siamo cresciuti in linea con le nostre aspettative per garantire un business sostenibile nel lungo periodo”: questa la motivazione espressa dalla multinazionale, come ha scritto il responsabile della comunicazione Manuele De Mattia sul blog dell’azienda.
“Il nostro obiettivo principale è ora quello di fare il possibile per i nostri dipendenti in conformità con le leggi vigenti”, si legge nella dichiarazione, assicurando “al contempo una transizione senza problemi per tutti i nostri ristoranti e i corrieri che utilizzano la nostra piattaforma”.
La multinazionale, in conclusione, ribadisce l’impegno “verso l’Italia, che non intendiamo assolutamente abbandonare: questa decisione ci consentirà di concentrarci ancora di più sui nostri servizi di mobilità, dove stiamo registrando una crescita importante”.
Il settore del food delivery
“Un mercato molto competitivo, in cui occorrono investimenti importanti anche da un punto di vista tecnologico”. A dirlo è il direttore dell'Ufficio studi di Fipe Confcommercio Luciano Sbraga, in un’intervista all’agenzia di stampa Adnkronos. Un mercato “molto complicato” per chi usufruisce di questi servizi come “i ristoranti e le pizzerie, una platea di circa 25-30 mila esercizi, circa il 15% del totale, che pagano commissioni molto elevate ai grandi player del settore”.
Il food delivery ha visto un boom durante la pandemia, mentre ora registra un rallentamento del 4-5% rispetto al 2020-2021. Ma i numeri restano ragguardevoli: nel 2022 ha fatturato in Italia 2,8 miliardi di euro (secondo il “Rapporto ristorazione” della Fipe), pari a circa il 4% del volume d’affari complessivo dei servizi di ristorazione. Di questi 2,8 miliardi, circa 1 miliardo si realizza online con le grandi piattaforme internazionali, mentre il restante 1,8 mediante la consegna a domicilio fatta dal personale della singola attività commerciale.
Il responsabile Fipe mette anche l’accento sul funzionamento “poco trasparente” del business: “Le informazioni sui clienti non vengono condivise con i ristoratori e inoltre, cosa ancora più grave, non si conosce come funziona l'algoritmo che indicizza la graduatoria dei vari locali che vengono scelti nelle app, da parte delle piattaforme internazionali che si contendono il mercato in Italia”.
Cgil: “Ora intervenga il governo”
“La vicenda di Uber Eats è paradigmatica del lavoro su piattaforma”. Così Nicola Marongiu, coordinatore dell’area Contrattazione e mercato del lavoro della Cgil nazionale, inquadra la vertenza. “Il dato evidente – spiega – è che i 3.800 rider non sono compresi nella procedura di licenziamento collettivo in virtù del loro rapporto di lavoro, e sono anche in assenza di ammortizzatori sociali”.
I collaboratori occasionali, infatti, non hanno “alcuna copertura per la disoccupazione involontaria o la perdita di reddito, e neanche un incentivo alla ricollocazione, mentre le partite Iva avrebbero accesso all’ammortizzatore sociale Iscro (ndr. Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa) che però ha criteri di ingresso molto complessi”.
La Cgil, dunque, chiede l’intervento dei ministeri del Lavoro e delle Imprese perché questa vicenda, anche alla luce della recente approvazione della proposta di direttiva in Consiglio europeo, è emblematica. “L’economia su piattaforma digitale – riprende Marongiu –ha un carattere particolarmente immateriale: la materialità è tutta sulle condizioni delle persone che, in virtù del loro rapporto di lavoro, come autonomi si assumono di fatto il rischio d’impresa”.
Lavoratori che sono impegnati “senza avere la garanzia di un reddito, e quando l'azienda se ne va, nei loro confronti non c'è alcun vincolo”. Per questa ragione, conclude il coordinatore dell’area Contrattazione e mercato del lavoro della Cgil nazionale, la Confederazione chiedeva “una disciplina, a partire dalla direttiva dell’Europa Europea, che avesse un carattere molto più stringente. Questi sono lavoratori dipendenti: hanno prodotto un reddito in modo dipendente da una impresa, quindi non possono essere considerati lavoratori autonomi”.
Filcams Cgil: “Società fortemente destrutturata”
“La situazione presenta alcune particolarità, che ci dicono come queste società siano fortemente destrutturate”. A illuminare la vertenza è Roberto Brambilla, dirigente della Filcams Cgil nazionale: “La prima è che Uber Eats ci ha comunicato che ai dipendenti non ha applicato un contratto collettivo nazionale, ma sono genericamente lavoratori che ‘operano nel terziario’”.
La seconda particolarità è l’enorme quantità di rider presenti in questa vertenza: “Noi chiediamo che al tavolo di confronto si discuta anche dei lavoratori che Uber ritiene non essere suoi dipendenti, diventa quindi fondamentale la presenza delle federazioni degli atipici. Ma l’azienda ci ha già detto di no, non vuole al tavolo la rappresentanza dei rider”.
Più in generale, Brambilla rileva che la cessazione dell’attività avviene perché “Uber Eats ritiene di non aver raggiunto le quote di mercato prefissate, non perché non abbia tenuto economicamente”. Ora è fondamentale “entrare nel merito della decisione per valutare percorsi differenti, ricordando che questa chiusura impatta su un numero elevatissimo di lavoratori. E di questi, solo 49 potranno comunque accedere alla Naspi, mentre tutti gli altri non avranno alcun sussidio”.
Nidil Cgil: “In assemblea con i lavoratori”
Un’assemblea online per oggi (martedì 27 giugno), questa la prima decisione del sindacato degli atipici. “Dobbiamo contrastare la fuga di Uber Eats dall’Italia”, spiega la segretaria nazionale Nidil Cgil Roberta Turi: “Anche perché nelle loro intenzioni c’è di lasciare il Paese senza assumersi alcun costo, considerata la situazione lavorativa precaria dei rider”.
Da qui la decisione dell'assemblea odierna, che si unisce a una campagna di volantinaggi in tutta Italia. “Assemblee non facili da organizzare – prosegue Turi – perché spesso dobbiamo farle in strada, nei luoghi dove i rider aspettano i loro ordini, avvalendoci dei nostri iscritti per intercettare i colleghi”.
Uber Eats ha respinto la richiesta delle categorie sindacali degli atipici di sedersi al tavolo di confronto. “Bisogna anzitutto affermare che questi sono lavoratori come tutti gli altri, non ci sono differenze”, conclude la segretaria nazionale Nidil: “L’azienda ci sta negando la possibilità di discutere l’impatto della loro decisione. Ecco, questo è inaccettabile”.