Lo striscione che campeggiava sotto al Palazzo Ducale di Martina Franca (Taranto) lo diceva espressamente: “La giusta medicina non è il Made in Cina”. Era il 2009 e i tentacoli della globalizzazione erano arrivati anche in Puglia, terra di cappottari e industrie manifatturiere. Dopo undici anni gli stakeholder locali dell’imprenditoria (Confindustria, Confcommercio e Cna), con il Comune, i sindacati e l’Università del Salento, firmano un protocollo che può invertire la tendenza. Un documento per riconoscere e valorizzare le produzioni made in Italy, a cominciare dal lavoro quotidiano delle maestranze, delle operaie e degli operai.

Obiettivo del protocollo per “la tutela e la valorizzazione del made in Italy e dell’economia di prossimità del tessuto produttivo di Martina Franca” è l’elaborazione di “un Piano di sviluppo del territorio, centrato sul made in Italy, con un particolare riferimento alla filiera del tessile-abbigliamento e del fashion-moda, e sulla crescita del commercio di prossimità”. Il Piano, spiegano i proponenti, può essere inserito nella programmazione degli investimenti regionali sostenuti dai fondi europei, e si sta anche valutando la possibilità di concedere sgravi fiscali sulle imposte locali alle imprese che dimostrano di aver fatto investimenti privati sullo sviluppo della filiera territoriale del tessile-abbigliamento.

Cgil, Cisl e Uil Taranto s’impegnano, anzitutto, a sostenere il Piano e l’azione del Comune per favorire investimenti e progetti sul territorio, con particolare attenzione “al raccordo della progettualità prevista nel Piano con le missioni e le misure previste nel Piano Sud 2030, lanciato dal ministero per la Coesione territoriale”. Obiettivo dei sindacati è anche la promozione di accordi con le imprese che investono su ricerca e innovazione, sulla formazione dei lavoratori, sulla valorizzazione delle loro competenze e su un nuovo modello di sviluppo del territorio. Altre azioni previste per Cgil, Cisl e Uil riguardano la transizione dei giovani dal sistema della scuola e dell’università al mercato del lavoro, l’incremento dell’offerta lavorativa per le donne, la creazione di reti territoriali che puntino alla piena occupazione e alla qualità del lavoro.

Un Piano ricco e articolato, dunque, che rappresenta un enorme avanzamento rispetto a dove si era undici anni fa. Ogni metro guadagnato dall’apertura dei mercati cinesi era un’industria chiusa e decine di operai in cassa, poi in mobilità. La maggior parte delle imprese tessili di Martina Franca, nel 2009, non erano strutturate per stare sul mercato con brand propri, ma erano contoterziste, fasoniste, producevano per altri. Anche marchi famosi, importanti. Innovazione di prodotto e processo, chiedeva la Filctem Cgil allora, contando ogni giorno nuovi disoccupati, nuove aziende che chiudevano. L’opinione pubblica era il vero problema: l’imprenditore che chiudeva bottega, svendeva i macchinari e andava a produrre in Cina, in Albania, in Tunisia, non veniva considerato un ladro o un approfittatore, ma uno furbo, quasi da imitare. Pazienza per operai e famiglie, anche perché, col tempo, il lavoro nelle confezioni era diventato quasi totalmente femminile, che al Sud si traduce spesso come lavoro accessorio.

Dopo undici anni, però, il mondo è completamente cambiato. Il problema dell’outsourcing è noto, e sulle posizioni della Filctem Cgil ora si trova anche Confindustria. Ma non solo per il comparto tessile-abbigliamento. La necessità di dare valore alla produzione di qualità sul territorio è una posizione condivisa da tutti. Il protocollo di Martina Franca, fortemente voluto dalla Cgil, è un modello di concertazione che mette intorno a un tavolo tutti gli stakeholder, per dire chiaramente che il territorio non intende più subire l’aggressione turboliberista, che riconosce le imprese che hanno voglia di crescere insieme alla comunità e che metterà al bando gli speculatori. È una comunità che finalmente si riconosce nel proprio lavoro e trova il fondamento del futuro nelle radici, nelle maestranze, nella propria storia.