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Forse non è troppo tardi. Per garantire la salute a chi ci garantisce la vita. Leggeremo gli elenchi degli “essenziali” dopo aver visto gli imbrogli di Confindustria, gli scioperi per la sicurezza, la lunga trattativa tra sindacati e governo. Scopriremo quali produzioni avranno il marchio dell’indispensabilità e, con esso, conosceremo chi dovrà rischiare e chi no, chi potrà fermarsi e chi dovrà continuare a lavorare pretendendo di farlo con il massimo possibile delle garanzie. Ciascuno potrà valutare la giustizia della “nuova lista”, tirare un respiro di sollievo o stringere i denti.
Non sarà un facile esercizio, in un paese impreparato perché falcidiato da anni di tagli alla spesa pubblica e via libera “all'invisibile mano dei mercati”. Ma non sarà un giudizio come altri e le conseguenze delle scelte di questi giorni non saranno solo “sindacali”. Semmai i sindacati sono chiamati a essere davvero rappresentanza generale. Perché il lavoro di alcuni, nel momento in cui si fa carico della vita di tutti, quando si scopre essenziale per l’intera collettività, rivela più che mai la sua natura di equivalente generale della società. E la sua condizione, la sua tutela – a partire da quella fisica, dei corpi in esso impegnati –, la sua organizzazione e divisione definiscono il grado di civiltà di una comunità, che sia un piccolo paese come un insieme di Stati. Cose che non possono essere risolte da un decreto ministeriale, tanto meno affidate al potere di deroga di un prefetto.
Forse non è troppo tardi. Per ristabilire un ordine di valori da cui trarre poteri e diritti. Per discutere chi decide, e in nome di chi, cosa sia l’essenziale per una società. Fino a ieri a decidere – in un crescendo incontrastato – è stato il mercato. Oggi è un virus. Il profitto non si è rassegnato e non si rassegnerà; quelli che quel profitto lo producono – ma non ne godono che una piccola parte – hanno dovuto confrontarsi prima con la legge dello Stato, dell’impresa, del consumo, ora con la prepotenza di qualcosa di ancor più invisibile che seleziona e colpisce i più deboli. E sono diventati la vera frontiera, a loro è affidata la vittoria sul nemico, le “risorse umane” tanto bistrattate o dimenticate cui ora tutti ricorrono per la salvezza comune. Perché è vero, “sarà il lavoro a sconfiggere il virus”.
Ma anche il dopo virus non potrà rimuovere una guerra da cui tutti usciamo sconvolti. A partire dalla classifica dei valori, imponendoci passi indietro che ci fanno fare i conti con l’essenza dell’umano, ci riavvicinano alle nostre origini animali costringendoci a ridefinire in cosa ci distinguiamo da quell'origine, il senso delle nostre civiltà. È per questo che il lavoro torna a essere dirimente, in senso assoluto, oltre il dramma contingente. In realtà tutti lo sanno, e da sempre; ma da molto tempo si finge che non sia così, forse per impedire che centrali diventino i lavoratori, quelli in carne e ossa, non le loro statistiche o il loro prezzo.
Oggi il virus ci spiega semplicemente che le persone al lavoro sono tutte essenziali, mentre non tutti i prodotti lo sono. In mezzo – tra lavoratori e prodotto – c’è la differenza che qualifica il tutto: cosa si fa, in quali condizioni, chi lo decide. E, allora, gli “essenziali” escono dalle tabelle merceologiche e si materializzano in donne e uomini veri. Oggi lo dovremmo capire concretamente, lo vediamo in un ospedale, in un negozio, in un nuovo respiratore prodotto, in un pacco o un cibo consegnati a domicilio, con tutte le persone che ci sono in quel luogo o dietro quel prodotto, quando il lavoro diventa un corpo; in quella corsa a riconvertire fabbriche di moda per produrre le mascherine che il libero mercato aveva abbandonato perché fanno guadagnare troppo poco; lo potremmo capire meglio persino quando il bisogno biologico di cibo ci costringe alle file al supermercato, avvicinando le nostre ansie a quelle solitamente così distanti di coloro che il cibo lo cercano nei cassonetti, loro sì da sempre ridotti quasi a pura essenza biologica.
In realtà non è mai troppo tardi. Lo diceva una vecchia trasmissione televisiva che ha fatto compagnia a molti di noi. Era programmata per insegnare a chi non le aveva potute apprendere cose elementari come leggere e scrivere, semplicemente perché povero. Oggi che elementare è l’uso del computer, dobbiamo tornare indietro per ridefinire e imparare un’altra grammatica sociale. Quella vigente non funziona più e ha svuotato lo spazio che separa un’esistenza biologica da una umana. Per riempire quello spazio sociale con una ricostruzione più giusta, che non rincorra gli “essenziali” per gettar loro addosso tutto il peso della vita. E poi dimenticarli.