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Non è confortante il terzo Rapporto sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro appena presentato dall'Anmil (l'Associazione nazionale tra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro) a Roma. Nel 2019 restano troppi gli infortuni (405 mila quelli riconosciuti) e crescono le malattie professionali (61.201, cioè 1.743 in più rispetto all'anno precedente). Tra le cause che spiegano numeri così elevati, uno dei dati più inquietanti riportati dal rapporto: su 18.446 accertamenti, “15.859 aziende sono risultate irregolari”, con un tasso altissimo, pari all'86 per cento, così come rilevato dal Rapporto annuale dell'attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale dell'Ispettorato nazionale del lavoro.
Per il presidente dell'Anmil, Zoello Forni, “abbiamo ancora molta strada da fare ma, in primo luogo, c'è necessità di semplificazione e completamento della disciplina prevenzionistica del Testo unico di salute e sicurezza del lavoro”. In effetti, del decreto legislativo n.81 firmato nel 2008 dall’allora ministro Cesare Damiano restano tutt'ora inattuati una ventina di provvedimenti. Ma semplificare e attuare non sono sinonimi – avverte Sebastiano Calleri, responsabile nazionale Cgil della Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro –. A spingere per la semplificazione è Confindustria, che non vuole una legislazione più moderna, ma delle operazioni chirurgiche che abbassino i livelli di tutela". La parte padronale, in sostanza, avrebbe anche una quota di responsabilità nella stasi interlocutoria tra governo e sindacati.
In occasione dell'incontro organizzato dall'Anmil, la ministra Nunzia Catalfo ha ricordato con soddisfazione l'istituzione di un tavolo che ha coinvolto tutte le parti sociali, ma anche esperti e associazioni il cui contributo può “portare anche a un aggiornamento del decreto 81”. Un giudizio che Calleri reputa generico, se si considera che “col ministero si era già arrivati alla definizione di linee molto precise: ad esempio, la riforma del sistema di vigilanza e l'introduzione della patente a punti” che rientri in un più ampio “sistema di qualificazione delle imprese”. In seguito, però, “i lavori si sono fermati non solo per colpa della pandemia”, ma anche per via della “opposizione esplicita di Confindustria a sistemi più stringenti che obblighino le aziende ad applicare il dlgs 81/2008 soprattutto nel mondo degli appalti”.
D'altronde, “lo scontro tra il profitto e la salute dei lavoratori durante il lockdown è stato emblematico”, continua l'esponente sindacale. Le linee-guida per prevenire la diffusione del Covid-19 nei luoghi di lavoro non sono state rispettate ovunque. Da un lato, “perché le aziende si sono trovate in una situazione difficile e non l'hanno affrontata in maniera corretta; dall'altro, perché molte di loro hanno ottenuto la deroga dei prefetti per entrare nei settori essenziali, dunque per poter produrre anche in piena pandemia”. Infine, “il sistema di vigilanza in molti territori non ha funzionato”, complice la scelta di escludere la rappresentanza sindacale dalle procedure di controllo. Risultato? Nonostante i protocolli di prevenzione fossero stati redatti già a marzo, i contagi in ambito lavorativo segnalati fino al 31 luglio sono ben 51.636.
Che fare, dunque, a fronte di un quadro così allarmante? Per Calleri tre sono le misure più urgenti: istituire un coordinamento della vigilanza, attualmente decentrato ai soggetti regionali; diffondere la cultura della sicurezza nel nostro tessuto produttivo; ma, soprattutto, combattere la tendenza delle imprese a tenere bassi i costi di produzione per risultare competitive. Il dumping sociale e la corsa al ribasso non sono certo compatibili con la tutela della salute di chi lavora.